Questo è esattamente il centesimo articolo che scrivo per il blog e vorrei dedicarlo ad uno di quegli autori ormai dimenticati, la cui fama negli ultimi decenni è stata offuscata da una serie infinita di best sellers, molti dei quali estremamente commerciali.
La Califfa di Alberto Bevilacqua è stato pubblicato per la prima volta nel 1964 e fu un successo editoriale, tanto che sei anni dopo ispirò il lungometraggio omonimo, con alla regia lo stesso autore e alla produzione Mario Cecchi Gori.

Devo essere sincera, sarà per la mia giovane età, ma non l’avrei mai conosciuto se non me l’avesse consigliato un amico, facente parte degli stessi gruppi di lettori su Facebook.
Il romanzo è ambientato negli anni Sessanta e ha come protagonista la giovane Irene Corsini, detta Califfa, che abita l’Oltretorrente del fiume a Parma, una zona molto povera per intenderci, insieme al marito Guido, un ex partigiano. Quest’ultimo, dopo aver assassinato due giovani fascisti, viene arrestato per tre anni, ma una volta uscito sembra cambiato: si mostra scontroso e violento con la moglie, ozia tutto il giorno e si interessa solo dei piccioni che alleva per il tiro al volo.
Come se non bastasse la Califfa, che già aveva dovuto sopportare il licenziamento per riduzione del personale in una fabbrica, perde il figlioletto Attilio, così scivola in un abisso di sconforto.
In questo frangente decide di ripiegare sull’amante di Vito Alibrandi, una promessa del calcio che vanta numerose conquiste femminili, ma senza lasciarsi prendere sentimentalmente da nessuna di queste.
È chiaro che leggendo le vicende del romanzo ci rendiamo conto che stiamo descrivendo una realtà che ormai riguarda forse pochissimi quartieri malfamati ancora presenti in Italia, dove vige ancora la netta contrapposizione e differenza fra indigenti e ricchi imprenditori. Nella storia questa forte separazione viene rappresentata dal fiume, che fisicamente divide due mondi che pare non possano mai incontrarsi.
La divisione di Bevilacqua poi, sembra assuma toni ancora più aspri se si tiene conto della rappresentazione dei personaggi: quelli ricchi sono semplicemente ipocriti senza cuore, attaccati solo al vile denaro, disposti al servilismo pur di rimanere attaccati come cozze ai propri privilegi; i poveri, d’altro canto, capita che siano inclini a comportamenti discutibili, ma perché vittime della loro stessa condizione.
In tutto ciò ho provato molta tristezza nei confronti della Califfa, una donna che ha dovuto fare i conti con esperienze tremende nella propria vita, dapprima perdendo l’amore, poi la stabilità economica e i suoi affetti più cari.
**DA QUI IN POI CI SONO ANTICIPAZIONI SUL FINALE**

La sua disperazione la porta a compiere scelte che non la rendono felice, ma rappresentano una sorta di autopunizione, come lei stessa racconta alla Viola giustificando i motivi sul perché continuasse a perdere tempo con uno come Vito.
La scelta di diventare una slandra, una sorta di concubina simile a Giulia ne I Leoni di Sicilia (con la differenza che qui il Doberdò era già sposato) mi è sembrata più dettata dalla disperazione: vedova, senza figli, senza lavoro, a vivere sulla spalle di una povera amica prostituta che già faticava a mantenere i suoi bambini.
La Califfa non ci stava più e ha deciso di prendere in mano la sua vita: avrebbe intrapreso una strada difficile per terminare i suoi giorni in pace con sé stessa. E difatti, ha accettato di diventare l’amante di un attempato imprenditore, ascoltando con pazienza le turbe mentali della sua crisi di mezza età, ottenendo in cambio dei favori per aiutare i poveri del suo quartiere.
Il Doberdò sembra abbia conosciuto la sua Beatrice, la donna che l’ha risvegliato dal sonno durato decenni, durante i quali è stato spinto ad accettare qualsiasi cosa pur di raggiungere la sua attuale posizione. Ora che lei gli ha aperto gli occhi, vede la realtà in maniera diversa e si sente più vicino alle sue umili origini. Arriva persino a chiederle di vivere con lui e mettere su famiglia insieme.
Francamente mi è sembrata una situazione un po’ patetica, forse perché sono influenzata da una mentalità diversa: un anziano pieno di soldi e potere si innamora perdutamente di una giovane donna, alla quale regala tutto, esibendola come un trofeo personale. Lei, dal canto suo, non prova certo amore nei suoi confronti, ma più che altro un affetto profondo, legato anche alla speranza di poter ottenere una vita migliore, più dignitosa e, perché no?, avere la possibilità di tornare ad essere di nuovo una madre.
Queste mie considerazioni, legate al finale che sembra ricordare che il destino non si possa stravolgere del tutto, lasciano un po’ con l’amaro in bocca.
Voto personale 3.5/5.
Julia
“Si fa presto a dire: quella è una slandra, una donna di rifiuti. Ti mettono la croce addosso e addio, poi fanno le orecchie del sordo. Insomma, non ti ripulisci più perché l’onestà di andare in fondo alle cose chi ce l’ha, in questa Italia lazzarona, dove tutti i loro peccati li nascondono come beni di contrabbando, solo per puntare il dito contro le debolezze degli altri? Questa è la cristiana carità che io conosco, questo il volersi bene dei fratelli…” La Califfa, A. Bevilacqua
Bel quadro sociale di un’epoca. Un libro che non conoscevo neppure io. Molto spesso alle donne serviva un uomo per questioni economiche più che affettive e anche se le prime denunce di questa realtà risalgono all’Ottocento ci siamo ancora in mezzo. Solo l’indipendenza economica rende libere di costruirsi una vita.
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Difatti tante accettavano di vivere con dei veri e propri mostri proprio perché non avevano abbastanza soldi per poter vivere in autonomia. La Califfa, decidendo di andare a lavorare in fabbrica, era pure avanti considerando l’epoca e il contesto!
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