I ragazzi hanno grandi sogni – A. Ehsani

Tre anni fa mi era capitato fra le mani un libro dal titolo curioso, ovvero Stanotte guardiamo le stelle, un’autobiografia di Alì Ehsani, uomo di origine afghane che aveva compiuto un lungo e insidioso viaggio per raggiungere l’Italia e scappare dalla guerra.

Una storia toccante, soprattutto perché la sua fuga è iniziata quando era solo un bambino di otto anni, rimasto orfano dopo che un bombardamento sulla sua casa aveva ucciso i genitori e costretto a scappare insieme al fratello maggiore.

Anche se sappiamo fin da subito che alla fine è riuscito nel suo intento, ciò che ha dovuto passare si può solo immaginare; Alì racconta in modo lucido e dettagliato la paura di doversi nascondere, la fame, i tentativi di ricominciare una nuova vita e la determinazione a raggiungere l’Europa, non senza rischi.

Il libro si conclude con il suo arrivo in Italia in modo clandestino, che rappresenta una vittoria dal sapore amaro e persino il giovanissimo Alì si rende conto che ha appena attraversato la punta dell’iceberg, perché adesso inizia una nuova fase della sua vita, anch’essa complicata, ricca di prove e di sofferenze.

E difatti, il secondo volume intitolato I ragazzi hanno grandi sogni parla del suo percorso di integrazione nel nostro Paese, che non è stato per nulla facile, come si può immaginare: Alì è sicuramente arrivato a destinazione, ma la paura di essere espatriato in un luogo dove ormai non ha più niente e nessuno continuerà a fargli compagnia per anni.

Senza contare che non conosce la lingua, ha perso molti anni di scuola ed è costretto a vivere in un centro di accoglienza, dove riceve tutte le cure necessarie per il sostentamento, ma soffre terribilmente di solitudine, come tutti gli altri ragazzi nella sua stessa situazione.

Ciò che mi ha colpito è la sua incredibile tenacia che l’ha spinto a fare enormi sacrifici per raggiungere la posizione che ha oggi; una sorta di rivalsa nei confronti di quella famiglia che ormai ha perso, ma sente sempre vicina.

Per quanto la sua storia sia commovente come la parte precedente, questa volta lo stile di scrittura non mi ha fatto impazzire per tre ragioni:

  • Prima di tutto perché narra al tempo presente ed è una cosa che per gusto personale non apprezzo. Preferisco il buon vecchio passato remoto, anche se alcuni lo trovano pesante.
  • In alcuni frangenti non è molto chiara la collocazione temporale degli eventi, perché a quanto ho capito i capitoli procedono un po’ per argomenti, non tanto per ordine cronologico. Oltre a ciò il ritmo è continuamente spezzato da flashback che descrivono meglio il suo rapporto con il padre e gli insegnamenti tratti dai genitori.
  • Ammetto che ho un po’ dubitato dell’autenticità di qualche episodio della storia, che forse è stato modificato perché risultasse più toccante per il lettore.

Alla fine, rimane comunque un libro che vale la pena leggere, perché poche volte ci si chiede cosa devono affrontare gli immigrati che sostano per anni nei centri di accoglienza, costretti a vivere in un limbo di incertezza con la paura di tornare in un luogo senza speranze dal quale sono scappati.

Voto 3/5.

“Mi chiede se ho qualche parente, qualche amico di famiglia, insomma è chiaro che anche solo la metà di quello che le ho raccontato le risulta insopportabile. E che forse, come milioni di italiani, non ha la minima idea di quali storie si nascondano in noi che arriviamo da lontano. Non è colpa sua: semplicemente i due mondi è difficile che si incrocino.” I ragazzi hanno grandi sogni, A. Ehsani

Il più grande uomo scimmia del Pleistocene – R. Lewis

Sono sicura che capita a tutti di leggere un qualsiasi libro e dimenticarsi le trama dopo anni, se non addirittura il fatto di averlo letto.

Un grosso “problema” che mi affligge più frequentemente di quanto io possa sopportare, dato che già dopo qualche mese da una qualsiasi lettura, la trama inizia a diventare sfumata, a prescindere da quanto mi sia piaciuta.

Uno di questi è proprio Il più grande uomo scimmia del Pleistocene di Roy Lewis, letto alle scuole medie su indicazione dell’insegnate di lettere, ma finito nel dimenticatoio dopo quasi 20 anni. Mi ricordavo, infatti, solo la lunga fuga di Griselda, in una sorta di rituale di corteggiamento.

È anche vero che rileggendolo da adulta, mi sono resa conto che probabilmente da ragazzina non avrei potuto cogliere gli spunti di riflessione dell’autore sulla società moderna, niente affatto mascherati fra i discorsi e le peripezie di questa bizzarra famiglia di cavernicoli.

Ma prima di esporre il mio pensiero, ecco due parole sulla trama: ci troviamo nel Pleistocene e l’ominide Edward è ossessionato dal progresso, dall’evoluzione e dal migliorare la propria specie; così, come primo passo fa scendere tutta la sua orda dagli alberi, per vivere nelle caverne, fabbricarsi armi e imparare ad utilizzare il fuoco!

Non mancano ovviamente le critiche, principalmente da parte dello zio Vania, fortemente ancorato alle tradizioni (o alle liane degli alberi) e atterrito all’idea che tutte queste nuove scoperte possano rivoltarsi contro la stessa specie. Così i suoi dibattiti con il fratello ricordano un po’ quelli che si vedono ancora oggi, fra gli estremisti religiosi da una parte e gli uomini di scienza dall’altra.

Certo, stiamo parlando di figure stereotipate, ma il succo è chiaro. Fra l’altro, non penso sia un caso che spesso e volentieri sono state inserite citazioni bibliche all’interno di contesti ironici, anche per sottolineare la posizione degli stessi personaggi.

Ma il punto di vista dell’autore non sembra protendere troppo da una parte o dall’altra, perché la narrazione è affidata a Ernest, uno dei figli più grandi di Edward, nonché il più filosofo e sognatore, capace di vedere i punti di criticità e le debolezze di entrambe le parti, pur provando maggiore ammirazione nei confronti della determinazione paterna.

Un altro tema che salta all’occhio, soprattutto ai recensori più moderni, è il ruolo femminile descritto nella storia, che rimane circoscritto alla prole, al mantenimento dell’ordine nella caverna e alla cieca ubbidienza nei confronti del proprio compagno.

Ad avvalorare le aspre critiche ci sono anche gli studi archeologici, che parlano dei numerosi compiti che dovevano avere le cavernicole in quel periodo: non solo “figliare” quindi, ma anche cacciare, difendere l’accampamento, costruire e raccogliere cibo, proprio come i maschi.

A parer mio, queste polemiche non hanno molto senso associate ad un libro del genere, prima di tutto perché è stato pubblicato nel 1960 e sappiamo bene come si viveva in quegli anni; in secondo luogo, è ambientato nel Pleistocene, con protagonisti dei cavernicoli, che non sono proprio un esempio di civiltà moderna. Difatti, non si parla solo di donne trattate come creature inferiori, ma anche di omicidi senza rimorsi, pregiudizi, razzismo e persino incesto.

Infine, un’ultima critica mossa all’autore sono stati i dialoghi anacronistici, nei quali i personaggi si pongono dilemmi esistenziali che farebbe solo l’uomo moderno; una scelta che in realtà doveva servire per condire il tutto con della sana ironia, che personalmente ho apprezzato, perché rende ancora più ridicoli i loro comportamenti retrogradi.

Tutto sommato, la considero una lettura piacevole, scorrevole e capace di strappare qualche sorriso.

Il finale, però, l’ho trovato un po’ troppo frettoloso.

Voto 4/5.

Il gatto che insegnava a essere felici – R. Wells

Comincio subito col dire che questo libro mi serve da monito: devo smetterla di comprare compulsivamente quando vedo lo sconto 2 x 9,90€, perché tante volte pur di scegliere il secondo titolo, comincio ad utilizzare criteri di scrematura ridicoli.

In questo caso, ciò che ha attirato la mia attenzione è stato il gatto sulla copertina, perché io amo questo animale e mi scioglie più del cane. LO AMMETTO!!!

“Ma com’è che come immagine di copertina hai un cane?”

Ecco, fra i tre (due gatti e un cane), lei è stata l’unica che si è prestata a farsi fotografare, ben sapendo di essere bella e fotogenica. Gli altri due al massimo annusano il cellulare oppure si voltano di spalle con fare annoiato.

Dunque, adesso capite perché con gioia infantile io abbia deciso di cimentarmi in una lettura dal titolo “Il gatto che insegnava a essere felici” (di Rachel Wells)! Ma è stato un grosso errore e fra poco vi spiego perché…

Il libro fa parte di una serie ed è tutta incentrata sul micio Alfie, un certosino che di mestiere fa il portinaio di Edgar Road, perché è incredibilmente impiccione, con la scusa di voler aiutare le persone ad essere felici.

Dopo che ha aiutato Claire e Jonathan a sposarsi, ora si presenta una nuova avventura carica di mistero: nella via è arrivata una famiglia molto riservata e asociale, che fa di tutto per tenere tutti alla larga, destando non pochi sospetti sui loro affari.

Persino la loro gatta Palla di Neve si mostra scontrosa e diffidente, ma Alfie è colpito dalla sua bellezza e non riesce a fare a meno di importunarla.

Le premesse non erano male e la scelta del protagonista era originale, ma… Niente! Per me è un libro tremendo, scritto male e fin troppo lungo. Giunta alla 328esima pagina, dopo che mi è venuto il diabete a furia di leggere frasi melense da biglietti delle elementari, ho capito che l’autrice è una pancina e del mondo dei gatti sa ben poco.

Per prima cosa ci tengo a ribadire che i romanzi leggeri, quelli con gli happy ending scontatissimi, generalmente non mi dispiacciono perché mi mettono di buon umore, ma qui a parer mio siamo ben oltre la decenza. Fra le chiusure di capitolo tutte uguali del tenore “Che bello essere circondati da tanto amore ecc.” (originalità, scansati proprio), ho notato però un messaggio che secondo me è pericoloso e assurdo da sostenere nel 2023, ovvero che la VERA felicità si ottiene solo con figli. Non è un caso che tutte le scene della Mulino Bianco coinvolgono solo persone che hanno almeno due bambini o comunque desiderano averne.

**Attenzione, qui parte l’anticipazione sul finale**

Il culmine di questo pensiero è stata la frase infelice di Alfie, dopo la scoperta della gravidanza di Claire: “Saremmo diventati una vera e propria famiglia!“. Un concetto che viene ribadito più volte, anche in modo sottinteso. Quindi, sappiate che se non avete figli, non siete davvero una famiglia…

Come se non bastasse, l’autrice ha un livello di conoscenza dei gatti che si ferma al cartone animato di Tom&Jerry, perché ad Alfie piacciono tutte le cose che generalmente i gatti detestano e non sono io la sig.ra Nessuno a dirlo, ma i numerosi articoli scritti da esperti sul comportamento di questo meraviglioso felino, che la Wells evidentemente si è dimenticata di guardare.

Per esempio, i gatti non sopportano il caos e per questo tendono a trovare un posto sicuro quando la loro casa è particolarmente affollata. La loro natura è predatoria, molto curiosa, ma anche piuttosto diffidente e difficilmente si farebbero avvicinare da qualcuno. Quando soffrono poi, diventano tremendi!

Inoltre, non sopportano essere maneggiati e toccati di continuo, per questo molto spesso tollerano poco i bambini, perché essendo piccoli ancora non capiscono i loro limiti. Una grossa differenza rispetto a molte razze di cani, che hanno una pazienza infinita e amano giocare con gli umani a qualsiasi età.

Io comunque capisco che il libro doveva avere un tono leggero, quindi non è che si pretende un trattato sul comportamento dei felini, però mi è sembrata un’occasione sprecata, considerato il protagonista così insolito.

Penso che con questa serie mi fermerò qui. Addio, Alfie… Preferisco i miei gatti.

Voto 1/5.