La Gabbia D’Oro – S. Ebadi

È da qualche settimana che ho iniziato una Book Challenge seguendo un gruppo Facebook, una sorta di sfida di lettura per uscire dalla propria comfort zone e sperimentare autori provenienti da altre culture.

Per chi volesse saperne di più, vi invito ad iscrivervi al gruppo dedicato, anche se è da un po’ che penso di dedicare un articolo all’argomento.

Tornando alla mia lettura, una delle indicazioni diceva di leggere un autore iraniano di nascita e ho scelto così l’avvocatessa pacifista Shirin Ebadi, vincitrice del premio Nobel nel 2003 e autrice di diversi libri, fra cui La Gabbia D’Oro.

In questo romanzo biografico l’autrice descrive con semplicità ed estrema chiarezza l’intricata storia politica iraniana del XX secolo, intrecciandola con le vicende della famiglia della sua migliore amica Parì. La stessa, infatti, ha tre fratelli che hanno deciso di dedicare la vita a tre differenti fazioni politiche, in continua lotta fra loro: il nazionalismo dello Shah, il socialismo e l’estremismo religioso di Khomeini.

I tumulti dello Stato si ripercuotono inevitabilmente sulle dinamiche famigliari, creando delle spaccature profonde che col tempo non riescono a sanarsi.

Il racconto di Ebadi, più che una mera descrizione della situazione politica del suo Paese, diventa una vera e propria denuncia sociale, una forma di protesta nei confronti di una classe politica estremamente ignorante, capace di reprimere nel sangue ogni minima opposizione e completamente sorda alle reali esigenze dei suoi cittadini.

Come afferma lei stessa, purtroppo è il petrolio che arricchisce l’Iran e non gli iraniani, riducendo così il loro potere per rovesciare una situazione insostenibile che spinge le persone a drastiche scelte: scappare dalla propria terra per sempre, adeguarsi oppure lottare sapendo che prima o poi il proprio nome entrerà a far parte della lunga lista delle vittime della Rivoluzione islamica, alle quali non viene concesso nemmeno un funerale.

Di questo libro ho apprezzato prima di tutto lo stile conciso, forse dovuto alla sua formazione giuridica, perché non ci sono lunghe digressioni politiche oppure elucubrazioni filosofiche: Ebadi racconta lucidamente e con estrema sintesi cosa avviene in Iran, comprese le contraddizioni delle sue leggi. Il suo stesso pensiero viene esposto soprattutto attraverso il dialogo con gli altri personaggi della storia, oppure riportando fatti che contraddicono chi è al potere.

Ho apprezzato tantissimo anche la sua capacità di autocritica: l’autrice in qualche modo si rende conto ad un certo punto di essere vittima di una sorta di ottusità ed egoismo quando si tratta di portare avanti le proprie battaglie, le stesse debolezze che ha sempre criticato negli altri.

Mi è dispiaciuto un po’, tuttavia, non trovare abbastanza informazioni che riguardano la sua storia personale: si apprende quasi per caso che ha avuto il Nobel per la Pace e le sue vicende fanno da contorno alla storia dell’amica Parì. Ma credo che ciò sia dovuto al fatto che l’argomento è stato ampiamente trattato in altri suoi libri, fra cui Finché non saremo liberi, pubblicato nel 2016.

In ogni caso, ne consiglio vivamente la lettura. Voto 4,5/5.

Per chi si stesse chiedendo che fine abbia fatto l’autrice, dovete sapere che dopo la pubblicazione del libro, avvenuta nel 2008, Ebadi è dovuta scappare a Londra in un esilio forzato, per evitare di essere arrestata e fare la fine di tutti gli altri oppositori.

Da lì, l’Iran ha comunque continuato a minacciarla, accusandola di frode fiscale per non aver pagato centinaia di migliaia di dollari in tasse derivanti dal premio Nobel.

Nonostante ciò, lei comunque afferma di voler tornare a Teheran un giorno.

«Nulla mi spaventa più, anche se minacciano di arrestarmi per evasione fiscale al mio rientro. Sostengono che debbo al governo 410 mila dollari in tasse arretrate per il Nobel: una fandonia visto che la legge fiscale iraniana stabilisce che i premi siano esentasse. Se trattano così una persona ad alto profilo come me, mi chiedo come si comportano di nascosto con uno studente o un cittadino qualunque» S. Ebadi

Agatha Raisin La giardiniera invasata – M. C. Beaton

Dopo un paio di letture che toccavano temi importanti, ho deciso di staccare un po’ buttandomi nel terzo volume della saga divertente di Agatha Raisin, la Miss Marple de’ noantri, ovvero La giardiniera invasata, scritta da M. C. Beaton.

Come per i precedenti, ogni caso inizia e finisce in un unico libro, ma per seguire le vicende della vita personale di Agatha, bisognerebbe procedere con ordine.

I primi due volumi infatti si intitolano La quiche letale e Il veterinario crudele, che ho già recensito.

La storia questa volta si apre con il ritorno di Agatha da una lunga vacanza solitaria, trascorsa in luoghi che mi hanno suscitato tanta invidia, ma che nel suo caso l’hanno fatta sentire sola e triste. Tornata a Carsely, infatti, non vede l’ora di rivedere i volti amichevoli dei suoi abitanti, compresa l’amica signora Bloxby e l’affascinante vicino di casa James.

Salvo poi scoprire con orrore che quest’ultimo ha iniziato a frequentare un nuovo acquisto del villaggio, Mary Fortune, una donna bellissima, alta, bionda, magra ed esperta nel giardinaggio. In poche parole, tutto ciò che Agatha non è e vorrebbe essere.

Ovviamente farà di tutto per tenere sotto osservazione quella relazione, compreso iscriversi alla società orticola locale, pur non avendo mai piantato un seme. Ma non passa molto tempo che iniziano a succedere cose strane: i giardini più belli vengono vandalizzati e i pesciolini dello stagno di Bernard Scott vengono persino avvelenati.

Un altro mistero su cui indagare nel terzo luogo con il più alto tasso di criminalità al mondo, subito dopo Stockport e Cabot Cove!

Per quanto riguarda la trama, a parer mio è riuscita meglio rispetto al volume precedente, anche se comunque stiamo sempre parlando di uno sviluppo scontato dalle dinamiche surreali; intuire chi sia il colpevole, infatti, non è poi così difficile, persino per una come me che generalmente non legge tanti gialli e thriller.

Ciò che mi attira di questa saga è la protagonista, che trovo divertente nel suo essere così impacciata: mi sembra più reale, autentica e non costruita ad hoc come i personaggi di altri libri. Fra l’altro come modi di fare ricorda molto una mia vecchia amica e forse è per questo che mi suscita dell’affetto.

Di contro, sto cominciando a non sopportare altri elementi della storia, ovvero:

  • Lo stoccafisso James, davvero antipatico se si considera che tratta Agatha a pesci in faccia solo perché non risponde ai suoi canoni di donna ideale. Non appena sospetta che lei nutre per lui dell’interesse amoroso, scappa senza dare spiegazioni, come un ragazzino delle scuole medie.
  • Il poliziotto Bill Wong che onestamente non mi sembra questa cima di intelligenza. Oltretutto, hai di fronte una donna che ha già risolto due casi di omicidio (quando la stessa polizia non sapeva che pesci pigliare) e, invece di assumerla, ti mostri arrabbiato perché ficca il naso dove non dovrebbe.

Per concludere, una nota di merito va alla traduzione del titolo, per il simpatico gioco di parole.

Voto 4/5.

PS: Grazie a questo volume mi sono ricordata che dovrei prendermi più cura del mio giardino, anche se mi sento più affine al modus operandi di Agatha, piuttosto che a quello di James.

The Help – K. Stockett

Nel 1960 veniva pubblicato Il buio oltre la siepe di Harper Lee, un romanzo che è diventato un caso letterario perché denunciava apertamente l’ipocrisia della società di quel tempo, dove razzismo, pregiudizi e tanta ignoranza la facevano da padrone.

Ciò che più colpiva della storia era il fatto che queste vicende venissero raccontate attraverso gli occhi di una bambina, più precisamente la figlia dell’avvocato che avrebbe dovuto difendere un ragazzo nero, accusato ingiustamente di aver stuprato una giovane donna.

Dopo oltre 60 anni, nonostante viviamo in un’epoca in cui è impensabile l’esistenza di posti separati per bianchi e neri, si torna ancora a parlare dell’argomento, ma perché?

Sostanzialmente, perché le leggi cambiano, le società si evolvono, ma l’ignoranza delle persone è proprio dura a morire. Certo, non possiamo dire che ci siano gli stessi problemi degli anni Sessanta – grazie a Dio, aggiungerei – eppure, molti neri ancora non si sentono del tutto accettati, integrati, presi in considerazione senza pregiudizi ecc. (vd. Addio, a domani di S. Efionayi).

In alcuni casi questo malcontento è stato esasperato a tal punto da fondare movimenti attivisti, come il celebre Black Lives Matter, nato nel 2013 per protestare contro gli abusi della polizia e del sistema giudiziario americano.

Il romanzo The Help di Kathryn Stockett, però, benché abbia come protagoniste delle domestiche nere che passano la vita a servire famiglie bianche altolocate, non penso proprio che sia nato per rientrare all’interno di questi movimenti di protesta e le ragioni che mi spingono a crederlo sono diverse.

Dunque, prima di tutto la storia è ambientata nel Mississippi degli anni Sessanta, in un contesto che per quanto consideri selvaggio e tutt’altro che civile, ad oggi è comunque superato; pertanto, non si può dire che stia descrivendo una realtà ancora presente in quelle zone d’America, facendo una denuncia sociale.

Accennando brevemente alla trama, le protagoniste sono tre:

  • Eugenia “Skeeter” Phelan, una giovane bianca che torna a casa dall’università con lo scopo di diventare scrittrice, contro il desiderio della madre di vederla accasata con un buon partito;
  • La materna Aibileen che lavora come domestica presso una famiglia bianca borghese;
  • La sfacciata, nonché cuoca eccellente Minny, sua migliore amica.

Per quanto diversissime, le tre donne trovano il coraggio di lavorare insieme ad un progetto che va contro le leggi razziali del tempo, per raccontare al mondo cosa significa davvero essere neri a Jackson.

Il romanzo, che ho apprezzato tantissimo, è una lettura piacevole, che scorre bene, senza privarsi di colpi di scena. Ci si affeziona facilmente ai protagonisti e quando si chiude l’ultima pagina, si vorrebbe saperne ancora di loro.

Tornando al discorso di prima, l’autrice nelle note finali dichiara di aver tratto ispirazione dal bel rapporto che aveva avuto da bambina con la sua domestica Demetrie; nessuno, però, aveva mai chiesto a questa donna, cosa volesse dire servire i bianchi.

In sostanza, più che una protesta sociale, mi è sembrato un omaggio ad una persona cara che aveva perso troppo presto; fra l’altro non credo che la pubblicazione avvenuta nel 2009 sia un caso, ovvero proprio quando saliva in carica negli USA il presidente B. Obama, il primo nero nella storia americana.

Oltretutto, sembra un paradosso che nel libro si cerca di raccontare la storia dal punto di vista dei neri, mentre il romanzo stesso viene scritto da una donna bianca, per giunta da una di quei bambini che sono stati cresciuti da loro. Difatti, tanti americani hanno criticato la sua visione di Jackson, considerata fin troppo stereotipata e semplicistica.

Qual è la conclusione? Che non mi è piaciuto?

Al contrario, ho amato sia il romanzo, sia la trasposizione cinematografica, che considero una delle mie preferite, tanto da volerla riguardare spesso. La considero comunque una storia commovente, dove donne completamente diverse riescono a superare le differenze e ad instaurare profondi legami di amicizia, condividendo al contempo il coraggio di lottare contro una società ingiusta.

Mi dispiace, però, che il contesto storico non sia stato inserito come avrei voluto: ci sono poche informazioni al riguardo, a volte approssimative e buttate lì tanto per ricordarci che ci troviamo negli anni Sessanta.

Ad ogni modo, il mio voto resta alto: 4/5.

Ps. Piccola curiosità per chi ha visto il film: osservando fra le donne che fanno parte della Lega, si può intravedere anche il volto dell’autrice K. Stockett.