La Gabbia D’Oro – S. Ebadi

È da qualche settimana che ho iniziato una Book Challenge seguendo un gruppo Facebook, una sorta di sfida di lettura per uscire dalla propria comfort zone e sperimentare autori provenienti da altre culture.

Per chi volesse saperne di più, vi invito ad iscrivervi al gruppo dedicato, anche se è da un po’ che penso di dedicare un articolo all’argomento.

Tornando alla mia lettura, una delle indicazioni diceva di leggere un autore iraniano di nascita e ho scelto così l’avvocatessa pacifista Shirin Ebadi, vincitrice del premio Nobel nel 2003 e autrice di diversi libri, fra cui La Gabbia D’Oro.

In questo romanzo biografico l’autrice descrive con semplicità ed estrema chiarezza l’intricata storia politica iraniana del XX secolo, intrecciandola con le vicende della famiglia della sua migliore amica Parì. La stessa, infatti, ha tre fratelli che hanno deciso di dedicare la vita a tre differenti fazioni politiche, in continua lotta fra loro: il nazionalismo dello Shah, il socialismo e l’estremismo religioso di Khomeini.

I tumulti dello Stato si ripercuotono inevitabilmente sulle dinamiche famigliari, creando delle spaccature profonde che col tempo non riescono a sanarsi.

Il racconto di Ebadi, più che una mera descrizione della situazione politica del suo Paese, diventa una vera e propria denuncia sociale, una forma di protesta nei confronti di una classe politica estremamente ignorante, capace di reprimere nel sangue ogni minima opposizione e completamente sorda alle reali esigenze dei suoi cittadini.

Come afferma lei stessa, purtroppo è il petrolio che arricchisce l’Iran e non gli iraniani, riducendo così il loro potere per rovesciare una situazione insostenibile che spinge le persone a drastiche scelte: scappare dalla propria terra per sempre, adeguarsi oppure lottare sapendo che prima o poi il proprio nome entrerà a far parte della lunga lista delle vittime della Rivoluzione islamica, alle quali non viene concesso nemmeno un funerale.

Di questo libro ho apprezzato prima di tutto lo stile conciso, forse dovuto alla sua formazione giuridica, perché non ci sono lunghe digressioni politiche oppure elucubrazioni filosofiche: Ebadi racconta lucidamente e con estrema sintesi cosa avviene in Iran, comprese le contraddizioni delle sue leggi. Il suo stesso pensiero viene esposto soprattutto attraverso il dialogo con gli altri personaggi della storia, oppure riportando fatti che contraddicono chi è al potere.

Ho apprezzato tantissimo anche la sua capacità di autocritica: l’autrice in qualche modo si rende conto ad un certo punto di essere vittima di una sorta di ottusità ed egoismo quando si tratta di portare avanti le proprie battaglie, le stesse debolezze che ha sempre criticato negli altri.

Mi è dispiaciuto un po’, tuttavia, non trovare abbastanza informazioni che riguardano la sua storia personale: si apprende quasi per caso che ha avuto il Nobel per la Pace e le sue vicende fanno da contorno alla storia dell’amica Parì. Ma credo che ciò sia dovuto al fatto che l’argomento è stato ampiamente trattato in altri suoi libri, fra cui Finché non saremo liberi, pubblicato nel 2016.

In ogni caso, ne consiglio vivamente la lettura. Voto 4,5/5.

Per chi si stesse chiedendo che fine abbia fatto l’autrice, dovete sapere che dopo la pubblicazione del libro, avvenuta nel 2008, Ebadi è dovuta scappare a Londra in un esilio forzato, per evitare di essere arrestata e fare la fine di tutti gli altri oppositori.

Da lì, l’Iran ha comunque continuato a minacciarla, accusandola di frode fiscale per non aver pagato centinaia di migliaia di dollari in tasse derivanti dal premio Nobel.

Nonostante ciò, lei comunque afferma di voler tornare a Teheran un giorno.

«Nulla mi spaventa più, anche se minacciano di arrestarmi per evasione fiscale al mio rientro. Sostengono che debbo al governo 410 mila dollari in tasse arretrate per il Nobel: una fandonia visto che la legge fiscale iraniana stabilisce che i premi siano esentasse. Se trattano così una persona ad alto profilo come me, mi chiedo come si comportano di nascosto con uno studente o un cittadino qualunque» S. Ebadi

Agatha Raisin La giardiniera invasata – M. C. Beaton

Dopo un paio di letture che toccavano temi importanti, ho deciso di staccare un po’ buttandomi nel terzo volume della saga divertente di Agatha Raisin, la Miss Marple de’ noantri, ovvero La giardiniera invasata, scritta da M. C. Beaton.

Come per i precedenti, ogni caso inizia e finisce in un unico libro, ma per seguire le vicende della vita personale di Agatha, bisognerebbe procedere con ordine.

I primi due volumi infatti si intitolano La quiche letale e Il veterinario crudele, che ho già recensito.

La storia questa volta si apre con il ritorno di Agatha da una lunga vacanza solitaria, trascorsa in luoghi che mi hanno suscitato tanta invidia, ma che nel suo caso l’hanno fatta sentire sola e triste. Tornata a Carsely, infatti, non vede l’ora di rivedere i volti amichevoli dei suoi abitanti, compresa l’amica signora Bloxby e l’affascinante vicino di casa James.

Salvo poi scoprire con orrore che quest’ultimo ha iniziato a frequentare un nuovo acquisto del villaggio, Mary Fortune, una donna bellissima, alta, bionda, magra ed esperta nel giardinaggio. In poche parole, tutto ciò che Agatha non è e vorrebbe essere.

Ovviamente farà di tutto per tenere sotto osservazione quella relazione, compreso iscriversi alla società orticola locale, pur non avendo mai piantato un seme. Ma non passa molto tempo che iniziano a succedere cose strane: i giardini più belli vengono vandalizzati e i pesciolini dello stagno di Bernard Scott vengono persino avvelenati.

Un altro mistero su cui indagare nel terzo luogo con il più alto tasso di criminalità al mondo, subito dopo Stockport e Cabot Cove!

Per quanto riguarda la trama, a parer mio è riuscita meglio rispetto al volume precedente, anche se comunque stiamo sempre parlando di uno sviluppo scontato dalle dinamiche surreali; intuire chi sia il colpevole, infatti, non è poi così difficile, persino per una come me che generalmente non legge tanti gialli e thriller.

Ciò che mi attira di questa saga è la protagonista, che trovo divertente nel suo essere così impacciata: mi sembra più reale, autentica e non costruita ad hoc come i personaggi di altri libri. Fra l’altro come modi di fare ricorda molto una mia vecchia amica e forse è per questo che mi suscita dell’affetto.

Di contro, sto cominciando a non sopportare altri elementi della storia, ovvero:

  • Lo stoccafisso James, davvero antipatico se si considera che tratta Agatha a pesci in faccia solo perché non risponde ai suoi canoni di donna ideale. Non appena sospetta che lei nutre per lui dell’interesse amoroso, scappa senza dare spiegazioni, come un ragazzino delle scuole medie.
  • Il poliziotto Bill Wong che onestamente non mi sembra questa cima di intelligenza. Oltretutto, hai di fronte una donna che ha già risolto due casi di omicidio (quando la stessa polizia non sapeva che pesci pigliare) e, invece di assumerla, ti mostri arrabbiato perché ficca il naso dove non dovrebbe.

Per concludere, una nota di merito va alla traduzione del titolo, per il simpatico gioco di parole.

Voto 4/5.

PS: Grazie a questo volume mi sono ricordata che dovrei prendermi più cura del mio giardino, anche se mi sento più affine al modus operandi di Agatha, piuttosto che a quello di James.

The Help – K. Stockett

Nel 1960 veniva pubblicato Il buio oltre la siepe di Harper Lee, un romanzo che è diventato un caso letterario perché denunciava apertamente l’ipocrisia della società di quel tempo, dove razzismo, pregiudizi e tanta ignoranza la facevano da padrone.

Ciò che più colpiva della storia era il fatto che queste vicende venissero raccontate attraverso gli occhi di una bambina, più precisamente la figlia dell’avvocato che avrebbe dovuto difendere un ragazzo nero, accusato ingiustamente di aver stuprato una giovane donna.

Dopo oltre 60 anni, nonostante viviamo in un’epoca in cui è impensabile l’esistenza di posti separati per bianchi e neri, si torna ancora a parlare dell’argomento, ma perché?

Sostanzialmente, perché le leggi cambiano, le società si evolvono, ma l’ignoranza delle persone è proprio dura a morire. Certo, non possiamo dire che ci siano gli stessi problemi degli anni Sessanta – grazie a Dio, aggiungerei – eppure, molti neri ancora non si sentono del tutto accettati, integrati, presi in considerazione senza pregiudizi ecc. (vd. Addio, a domani di S. Efionayi).

In alcuni casi questo malcontento è stato esasperato a tal punto da fondare movimenti attivisti, come il celebre Black Lives Matter, nato nel 2013 per protestare contro gli abusi della polizia e del sistema giudiziario americano.

Il romanzo The Help di Kathryn Stockett, però, benché abbia come protagoniste delle domestiche nere che passano la vita a servire famiglie bianche altolocate, non penso proprio che sia nato per rientrare all’interno di questi movimenti di protesta e le ragioni che mi spingono a crederlo sono diverse.

Dunque, prima di tutto la storia è ambientata nel Mississippi degli anni Sessanta, in un contesto che per quanto consideri selvaggio e tutt’altro che civile, ad oggi è comunque superato; pertanto, non si può dire che stia descrivendo una realtà ancora presente in quelle zone d’America, facendo una denuncia sociale.

Accennando brevemente alla trama, le protagoniste sono tre:

  • Eugenia “Skeeter” Phelan, una giovane bianca che torna a casa dall’università con lo scopo di diventare scrittrice, contro il desiderio della madre di vederla accasata con un buon partito;
  • La materna Aibileen che lavora come domestica presso una famiglia bianca borghese;
  • La sfacciata, nonché cuoca eccellente Minny, sua migliore amica.

Per quanto diversissime, le tre donne trovano il coraggio di lavorare insieme ad un progetto che va contro le leggi razziali del tempo, per raccontare al mondo cosa significa davvero essere neri a Jackson.

Il romanzo, che ho apprezzato tantissimo, è una lettura piacevole, che scorre bene, senza privarsi di colpi di scena. Ci si affeziona facilmente ai protagonisti e quando si chiude l’ultima pagina, si vorrebbe saperne ancora di loro.

Tornando al discorso di prima, l’autrice nelle note finali dichiara di aver tratto ispirazione dal bel rapporto che aveva avuto da bambina con la sua domestica Demetrie; nessuno, però, aveva mai chiesto a questa donna, cosa volesse dire servire i bianchi.

In sostanza, più che una protesta sociale, mi è sembrato un omaggio ad una persona cara che aveva perso troppo presto; fra l’altro non credo che la pubblicazione avvenuta nel 2009 sia un caso, ovvero proprio quando saliva in carica negli USA il presidente B. Obama, il primo nero nella storia americana.

Oltretutto, sembra un paradosso che nel libro si cerca di raccontare la storia dal punto di vista dei neri, mentre il romanzo stesso viene scritto da una donna bianca, per giunta da una di quei bambini che sono stati cresciuti da loro. Difatti, tanti americani hanno criticato la sua visione di Jackson, considerata fin troppo stereotipata e semplicistica.

Qual è la conclusione? Che non mi è piaciuto?

Al contrario, ho amato sia il romanzo, sia la trasposizione cinematografica, che considero una delle mie preferite, tanto da volerla riguardare spesso. La considero comunque una storia commovente, dove donne completamente diverse riescono a superare le differenze e ad instaurare profondi legami di amicizia, condividendo al contempo il coraggio di lottare contro una società ingiusta.

Mi dispiace, però, che il contesto storico non sia stato inserito come avrei voluto: ci sono poche informazioni al riguardo, a volte approssimative e buttate lì tanto per ricordarci che ci troviamo negli anni Sessanta.

Ad ogni modo, il mio voto resta alto: 4/5.

Ps. Piccola curiosità per chi ha visto il film: osservando fra le donne che fanno parte della Lega, si può intravedere anche il volto dell’autrice K. Stockett.

I ragazzi hanno grandi sogni – A. Ehsani

Tre anni fa mi era capitato fra le mani un libro dal titolo curioso, ovvero Stanotte guardiamo le stelle, un’autobiografia di Alì Ehsani, uomo di origine afghane che aveva compiuto un lungo e insidioso viaggio per raggiungere l’Italia e scappare dalla guerra.

Una storia toccante, soprattutto perché la sua fuga è iniziata quando era solo un bambino di otto anni, rimasto orfano dopo che un bombardamento sulla sua casa aveva ucciso i genitori e costretto a scappare insieme al fratello maggiore.

Anche se sappiamo fin da subito che alla fine è riuscito nel suo intento, ciò che ha dovuto passare si può solo immaginare; Alì racconta in modo lucido e dettagliato la paura di doversi nascondere, la fame, i tentativi di ricominciare una nuova vita e la determinazione a raggiungere l’Europa, non senza rischi.

Il libro si conclude con il suo arrivo in Italia in modo clandestino, che rappresenta una vittoria dal sapore amaro e persino il giovanissimo Alì si rende conto che ha appena attraversato la punta dell’iceberg, perché adesso inizia una nuova fase della sua vita, anch’essa complicata, ricca di prove e di sofferenze.

E difatti, il secondo volume intitolato I ragazzi hanno grandi sogni parla del suo percorso di integrazione nel nostro Paese, che non è stato per nulla facile, come si può immaginare: Alì è sicuramente arrivato a destinazione, ma la paura di essere espatriato in un luogo dove ormai non ha più niente e nessuno continuerà a fargli compagnia per anni.

Senza contare che non conosce la lingua, ha perso molti anni di scuola ed è costretto a vivere in un centro di accoglienza, dove riceve tutte le cure necessarie per il sostentamento, ma soffre terribilmente di solitudine, come tutti gli altri ragazzi nella sua stessa situazione.

Ciò che mi ha colpito è la sua incredibile tenacia che l’ha spinto a fare enormi sacrifici per raggiungere la posizione che ha oggi; una sorta di rivalsa nei confronti di quella famiglia che ormai ha perso, ma sente sempre vicina.

Per quanto la sua storia sia commovente come la parte precedente, questa volta lo stile di scrittura non mi ha fatto impazzire per tre ragioni:

  • Prima di tutto perché narra al tempo presente ed è una cosa che per gusto personale non apprezzo. Preferisco il buon vecchio passato remoto, anche se alcuni lo trovano pesante.
  • In alcuni frangenti non è molto chiara la collocazione temporale degli eventi, perché a quanto ho capito i capitoli procedono un po’ per argomenti, non tanto per ordine cronologico. Oltre a ciò il ritmo è continuamente spezzato da flashback che descrivono meglio il suo rapporto con il padre e gli insegnamenti tratti dai genitori.
  • Ammetto che ho un po’ dubitato dell’autenticità di qualche episodio della storia, che forse è stato modificato perché risultasse più toccante per il lettore.

Alla fine, rimane comunque un libro che vale la pena leggere, perché poche volte ci si chiede cosa devono affrontare gli immigrati che sostano per anni nei centri di accoglienza, costretti a vivere in un limbo di incertezza con la paura di tornare in un luogo senza speranze dal quale sono scappati.

Voto 3/5.

“Mi chiede se ho qualche parente, qualche amico di famiglia, insomma è chiaro che anche solo la metà di quello che le ho raccontato le risulta insopportabile. E che forse, come milioni di italiani, non ha la minima idea di quali storie si nascondano in noi che arriviamo da lontano. Non è colpa sua: semplicemente i due mondi è difficile che si incrocino.” I ragazzi hanno grandi sogni, A. Ehsani

Il più grande uomo scimmia del Pleistocene – R. Lewis

Sono sicura che capita a tutti di leggere un qualsiasi libro e dimenticarsi le trama dopo anni, se non addirittura il fatto di averlo letto.

Un grosso “problema” che mi affligge più frequentemente di quanto io possa sopportare, dato che già dopo qualche mese da una qualsiasi lettura, la trama inizia a diventare sfumata, a prescindere da quanto mi sia piaciuta.

Uno di questi è proprio Il più grande uomo scimmia del Pleistocene di Roy Lewis, letto alle scuole medie su indicazione dell’insegnate di lettere, ma finito nel dimenticatoio dopo quasi 20 anni. Mi ricordavo, infatti, solo la lunga fuga di Griselda, in una sorta di rituale di corteggiamento.

È anche vero che rileggendolo da adulta, mi sono resa conto che probabilmente da ragazzina non avrei potuto cogliere gli spunti di riflessione dell’autore sulla società moderna, niente affatto mascherati fra i discorsi e le peripezie di questa bizzarra famiglia di cavernicoli.

Ma prima di esporre il mio pensiero, ecco due parole sulla trama: ci troviamo nel Pleistocene e l’ominide Edward è ossessionato dal progresso, dall’evoluzione e dal migliorare la propria specie; così, come primo passo fa scendere tutta la sua orda dagli alberi, per vivere nelle caverne, fabbricarsi armi e imparare ad utilizzare il fuoco!

Non mancano ovviamente le critiche, principalmente da parte dello zio Vania, fortemente ancorato alle tradizioni (o alle liane degli alberi) e atterrito all’idea che tutte queste nuove scoperte possano rivoltarsi contro la stessa specie. Così i suoi dibattiti con il fratello ricordano un po’ quelli che si vedono ancora oggi, fra gli estremisti religiosi da una parte e gli uomini di scienza dall’altra.

Certo, stiamo parlando di figure stereotipate, ma il succo è chiaro. Fra l’altro, non penso sia un caso che spesso e volentieri sono state inserite citazioni bibliche all’interno di contesti ironici, anche per sottolineare la posizione degli stessi personaggi.

Ma il punto di vista dell’autore non sembra protendere troppo da una parte o dall’altra, perché la narrazione è affidata a Ernest, uno dei figli più grandi di Edward, nonché il più filosofo e sognatore, capace di vedere i punti di criticità e le debolezze di entrambe le parti, pur provando maggiore ammirazione nei confronti della determinazione paterna.

Un altro tema che salta all’occhio, soprattutto ai recensori più moderni, è il ruolo femminile descritto nella storia, che rimane circoscritto alla prole, al mantenimento dell’ordine nella caverna e alla cieca ubbidienza nei confronti del proprio compagno.

Ad avvalorare le aspre critiche ci sono anche gli studi archeologici, che parlano dei numerosi compiti che dovevano avere le cavernicole in quel periodo: non solo “figliare” quindi, ma anche cacciare, difendere l’accampamento, costruire e raccogliere cibo, proprio come i maschi.

A parer mio, queste polemiche non hanno molto senso associate ad un libro del genere, prima di tutto perché è stato pubblicato nel 1960 e sappiamo bene come si viveva in quegli anni; in secondo luogo, è ambientato nel Pleistocene, con protagonisti dei cavernicoli, che non sono proprio un esempio di civiltà moderna. Difatti, non si parla solo di donne trattate come creature inferiori, ma anche di omicidi senza rimorsi, pregiudizi, razzismo e persino incesto.

Infine, un’ultima critica mossa all’autore sono stati i dialoghi anacronistici, nei quali i personaggi si pongono dilemmi esistenziali che farebbe solo l’uomo moderno; una scelta che in realtà doveva servire per condire il tutto con della sana ironia, che personalmente ho apprezzato, perché rende ancora più ridicoli i loro comportamenti retrogradi.

Tutto sommato, la considero una lettura piacevole, scorrevole e capace di strappare qualche sorriso.

Il finale, però, l’ho trovato un po’ troppo frettoloso.

Voto 4/5.

Il gatto che insegnava a essere felici – R. Wells

Comincio subito col dire che questo libro mi serve da monito: devo smetterla di comprare compulsivamente quando vedo lo sconto 2 x 9,90€, perché tante volte pur di scegliere il secondo titolo, comincio ad utilizzare criteri di scrematura ridicoli.

In questo caso, ciò che ha attirato la mia attenzione è stato il gatto sulla copertina, perché io amo questo animale e mi scioglie più del cane. LO AMMETTO!!!

“Ma com’è che come immagine di copertina hai un cane?”

Ecco, fra i tre (due gatti e un cane), lei è stata l’unica che si è prestata a farsi fotografare, ben sapendo di essere bella e fotogenica. Gli altri due al massimo annusano il cellulare oppure si voltano di spalle con fare annoiato.

Dunque, adesso capite perché con gioia infantile io abbia deciso di cimentarmi in una lettura dal titolo “Il gatto che insegnava a essere felici” (di Rachel Wells)! Ma è stato un grosso errore e fra poco vi spiego perché…

Il libro fa parte di una serie ed è tutta incentrata sul micio Alfie, un certosino che di mestiere fa il portinaio di Edgar Road, perché è incredibilmente impiccione, con la scusa di voler aiutare le persone ad essere felici.

Dopo che ha aiutato Claire e Jonathan a sposarsi, ora si presenta una nuova avventura carica di mistero: nella via è arrivata una famiglia molto riservata e asociale, che fa di tutto per tenere tutti alla larga, destando non pochi sospetti sui loro affari.

Persino la loro gatta Palla di Neve si mostra scontrosa e diffidente, ma Alfie è colpito dalla sua bellezza e non riesce a fare a meno di importunarla.

Le premesse non erano male e la scelta del protagonista era originale, ma… Niente! Per me è un libro tremendo, scritto male e fin troppo lungo. Giunta alla 328esima pagina, dopo che mi è venuto il diabete a furia di leggere frasi melense da biglietti delle elementari, ho capito che l’autrice è una pancina e del mondo dei gatti sa ben poco.

Per prima cosa ci tengo a ribadire che i romanzi leggeri, quelli con gli happy ending scontatissimi, generalmente non mi dispiacciono perché mi mettono di buon umore, ma qui a parer mio siamo ben oltre la decenza. Fra le chiusure di capitolo tutte uguali del tenore “Che bello essere circondati da tanto amore ecc.” (originalità, scansati proprio), ho notato però un messaggio che secondo me è pericoloso e assurdo da sostenere nel 2023, ovvero che la VERA felicità si ottiene solo con figli. Non è un caso che tutte le scene della Mulino Bianco coinvolgono solo persone che hanno almeno due bambini o comunque desiderano averne.

**Attenzione, qui parte l’anticipazione sul finale**

Il culmine di questo pensiero è stata la frase infelice di Alfie, dopo la scoperta della gravidanza di Claire: “Saremmo diventati una vera e propria famiglia!“. Un concetto che viene ribadito più volte, anche in modo sottinteso. Quindi, sappiate che se non avete figli, non siete davvero una famiglia…

Come se non bastasse, l’autrice ha un livello di conoscenza dei gatti che si ferma al cartone animato di Tom&Jerry, perché ad Alfie piacciono tutte le cose che generalmente i gatti detestano e non sono io la sig.ra Nessuno a dirlo, ma i numerosi articoli scritti da esperti sul comportamento di questo meraviglioso felino, che la Wells evidentemente si è dimenticata di guardare.

Per esempio, i gatti non sopportano il caos e per questo tendono a trovare un posto sicuro quando la loro casa è particolarmente affollata. La loro natura è predatoria, molto curiosa, ma anche piuttosto diffidente e difficilmente si farebbero avvicinare da qualcuno. Quando soffrono poi, diventano tremendi!

Inoltre, non sopportano essere maneggiati e toccati di continuo, per questo molto spesso tollerano poco i bambini, perché essendo piccoli ancora non capiscono i loro limiti. Una grossa differenza rispetto a molte razze di cani, che hanno una pazienza infinita e amano giocare con gli umani a qualsiasi età.

Io comunque capisco che il libro doveva avere un tono leggero, quindi non è che si pretende un trattato sul comportamento dei felini, però mi è sembrata un’occasione sprecata, considerato il protagonista così insolito.

Penso che con questa serie mi fermerò qui. Addio, Alfie… Preferisco i miei gatti.

Voto 1/5.

L’Inverno dei Leoni – S. Auci

Dopo più di un anno, giusto per iniziare il 2023 col “botto”, ho deciso di riprendere in mano la saga dei Florio, per terminare la loro storia e scoprire in qualche modo come sia stato possibile perdere tanti soldi e tanto prestigio.

Dunque, già gli ultimi giorni di dicembre avevo iniziato L’Inverno dei Leoni di Stefania Auci, senza avere grandissime aspettative, anche se leggendo le recensioni per molti questo secondo volume è stato meglio del precedente.

Insomma, dopo interminabili settimane, finalmente l’ho concluso.

La storia si divide grosso modo in due blocchi: il primo si concentra sull’ulteriore ascesa dell’impero dei Florio, che questa volta ha come protagonista il giovane Ignazio, un uomo pacato, rispettoso, riservato, ma anche molto tormentato da un amore che non ha mai potuto vivere, perché costretto, in un certo senso, a sposare Giovanna per le sue nobili origini.

Nella seconda parte, che è quella più consistente, si assiste al loro lento declino economico, guidato dalla presunzione dell’erede Ignaziddu, che è stanco di mettere gli interessi della famiglia al primo posto: lui vuole sentirsi libero e godersi i piaceri della vita, perché stare ore dietro ad una scrivania lo deprime.

Ciò lo porta a sposare la bellissima Franca, che inizialmente si mostra come una ragazza piuttosto ingenua, ma nel corso del tempo diventa molto astuta e intelligente. Non a caso, era una delle donne più influenti del suo tempo…

Mi ricordo che andando a rileggere la mia recensione sul primo volume, ero stata molto aspra nelle critiche, perché a parer mio c’erano troppe cose che non funzionavano nella narrazione.

Il problema è che anche volendo indorare la pillola, questa volta la conclusione non è molto diversa: se nel precedente libro non era chiaro come i Florio si fossero arricchiti, questa volta non viene ben spiegato perché siano calati così a picco, dando delle spiegazioni fin troppo frettolose e approssimative.

E proprio da qui parto col dire che ancora una volta la narrazione non mi ha convinta più di tanto: piatta, noiosa, prolissa, soporifera e persino ripetitiva, soprattutto per quanto riguarda i drammi amorosi, ai quali la Auci dedica gran parte dello spazio. In mezzo a questi episodi veniva inserita qualche riflessione ad effetto, tipo Baci Perugina, e lì pensavo “Finalmente una svolta nei personaggi o negli eventi!”. E invece, no! Sempre uguali, sempre gli stessi errori, pensieri, comportamenti.

Li hai conosciuti a 20 anni e saranno così anche a 50. Nessuna evoluzione o maturazione, il che mi sembra un po’ surreale sinceramente.

Un altro aspetto da puntualizzare sono le traduzioni: molti dialoghi sono in dialetto, come se tutti capissero il siciliano. Lo dico più per puntiglio, che per difficoltà personale; devo ringraziare le mie origini e quelle di mio marito (guarda caso è proprio palermitano) se comunque ho afferrato cosa volevano comunicare.

Infine, contesto storico inserito malissimo come nel primo volume, anche se ho avuto l’impressione che abbia provato a fare di meglio ed è l’unico motivo per cui do un voto in più; difatti, gli approfondimenti dei materiali erano molto interessanti, ma nulla più.

Due paginette per riassumere anni ricchi di eventi storici, che poi non influiscono neanche tanto sulla vita dei Florio, troppo presi dai loro problemi amorosi. E quando ne erano influenzati, la narrazione mi è sembrata fin troppo banale e ridicola, persino per quanto riguarda periodi storici più recenti, come le Guerre Mondiali.

In conclusione, a parer mio, un’occasione sprecata…

Voto 3/5.

[…] quei due si erano sposati senza aver mai fatto esercizio di pazienza, senza rendersi conto di cosa fosse lo spirito di sacrificio. Avevano creduto che ‘per sempre’ significasse viaggiare tutta la vita lungo un fiume ampio e placido. E invece voleva dire schivare le rocce, evitare i gorghi e i mulinelli, cercare di non finire mai in secca. Ci si riusciva solo se si remava entrambi nella stessa direzione, se si guardava il medesimo orizzonte.” L’Inverno dei Leoni, S. Auci

Agatha Raisin Il Veterinario crudele – M. C. Beaton

Dovete sapere che per me risulta abbastanza difficile concentrarmi in questi giorni, dato che praticamente continuiamo a mangiare ininterrottamente invitati sempre da qualcuno, facendomi perdere la cognizione del tempo.

Nel caso non si fosse capito, io e mio marito veniamo da due famiglie numerose del profondo sud; il che significa grandi abbuffate quando ci si trova insieme.

Tutto è cominciato il 23 dicembre (in occasione della Vigilia della Vigilia) ed è ancora in corso, perché questi giorni che fanno da ponte fra Santo Stefano e Capodanno si vivono come una sorta di preparazione olimpica per ciò che ci attende alla fine dell’anno, il Gran finale, la madre di tutte le abbuffate del 2022, l’ultimo atto di una tragedia infinita!

Il bilancio attuale è:

  • Bilancia nascosta;
  • Perdita di cognizione del tempo e dello spazio;
  • Incapacità di concentrarsi su argomenti troppo complicati: motivo per cui si scatenano i peggio dibattiti proprio in prossimità del Capodanno.

In un clima del genere potevo permettermi solo una lettura leggera e divertente, ma quale se non l’amata serie appena scoperta di Agatha Raisin firmata M. C. Beaton? Questa volta con il titolo Il Veterinario Crudele!

Se vi siete persi la recensione del primo volume, la trovate cliccando qui. In sostanza, Agatha è una signora di mezza età che, dopo una carriera brillante come PR, decide di andare in pensione prima del tempo e comprarsi una casetta nella campagna inglese.

Il suo arrivo porta fin da subito uno scossone, perché intorno a lei succede sempre un guaio e questa volta si tratta dell’omicidio del nuovo veterinario Paul Bladen, avvenuto poco tempo dopo essere uscito con lei.

Agatha decide di indagare per scoprire chi è il colpevole, più che altro per avere una scusa per trascorrere del tempo con l’affascinante vicino di casa James, il quale ogni volta che fiuta la sua volontà di flirtare, sparisce senza pietà.

Anche in questo caso non stiamo parlando di un giallo ricco di misteri, perché in fin dei conti non è poi così difficile capire chi sia il reale colpevole già a circa metà della storia.

La mia impressione è che questa volta l’autrice si sia voluta concentrare sulla componente sentimentale della vicenda, mostrando un lato più vulnerabile e sensibile della stessa protagonista, senza mai diventare troppo stucchevole; difatti, continua a rimanere la narrazione ironica, con eventi al limite dell’assurdo ed episodi divertenti.

In aggiunta, lo stile della narrazione rende sempre la storia tanto scorrevole da riuscire a finirla in appena una giornata, mettendo anche di buon umore (almeno, per me è così).

Una domanda che potrebbe sorgere spontanea è se sia il caso si leggere i volumi in ordine di pubblicazione per comprendere meglio la storia. A parer mio la risposta è : è chiaro che le vicende sentimentali di Agatha fanno da sfondo a tutta la serie, ma ogni libro inizia e finisce un caso di omicidio, senza lasciare interrogativi e in modo molto lineare.

Ad ogni modo, per chi desidera un giallo che non si prende troppo sul serio, lo consiglio sicuramente.

Voto 4/5.

Auguri di buoni digestivi per le feste!

Julia

Grandi classici: Agnes Grey – A. Brontë e Fiera del Libro

Nel mese di settembre mio marito (G.) decide di farmi una sorpresa e mi porta al centro di Bologna, con mia grande perplessità, dato che entrambi detestiamo le città in genere (non a caso abitiamo alle pendici di una montagna).

Prima di scendere dall’auto lo vedo prendere il sacco di tela che teniamo come scorta per la spesa, il quale puntualmente dimentichiamo appena entriamo all’Esselunga.

“Questo ci servirà…” commenta con un sorriso malizioso. Nel frattempo, io inizio a chiedermi cos’abbia in mente: dovevamo venire fino a Bologna per girare il mercato??

Intorno a noi zero indizi: abbiamo parcheggiato proprio nei pressi della stazione, dove da una parte c’è gente che si muove con passo felpato vestita come me quando scendo in paese per prendere le crocchette dei gatti e da un’altra, in un’auto parcheggiata, due ragazzi sono intenti a registrare una story su un social.

“Ma dove stiamo andando?” chiedo con la mia solita pazienza, cercando di nascondere una punta di nervosismo.

“Adesso vedi… Tempo al tempo.”

Insomma, ci muoviamo nel traffico attraversando strade bagnate e penso che detesto anche uscire con la pioggia. Mi guardo attorno per cercare di orientarmi, ma non vedo niente di familiare.

Alla fine, in una piazza (XX settembre) scopro un tendone enorme dove si intravedono delle bancarelle: è la Fiera del Libro di Bologna, attiva dal 1927! Un errore imperdonabile non averla mai vista o conosciuta, soprattutto per una lettrice che abita a circa un’oretta di distanza.

Mentre G. spiega soddisfatto di cosa si tratta, per l’entusiasmo smetto di ascoltare dopo 0,2 secondi e inizio ad aggirarmi per i banconi, come una bambina in mezzo ai giocattoli. Volumi di ogni genere e dimensione riempiono ogni singolo centimetro delle superfici, sotto gli occhi estasiati di lettori e collezionisti incalliti. Osservare quel mare di parole è stato divertente: sembrava una caccia al tesoro per trovare l’affare migliore.

Inutile dire che alla fine il sacco di tela è tornato utile e ho comprato ben 11 libri, spendendo circa una sessantina di euro. Fra questi, grandi classici e best seller a prezzi davvero stracciati, che hanno riempito altri ripiani della mia libreria in attesa di essere letti nelle prossime vite parallele.

La Fiera si è conclusa il 7 novembre, ma presumo che venga riaperta anche l’anno prossimo più o meno nello stesso periodo.

Per quanto riguarda i libri acquistati, tra questi ho preso il grande classico Agnes Grey di Anna Brontë, la sorella minore di Charlotte ed Emily. Purtroppo, si tratta di uno dei due soli volumi da lei scritti, data la sua morte precoce all’età di 29 anni a causa della tubercolosi.

La storia narrata risulta essere in parte autobiografica: Agnes è una ragazza di circa 18 anni che decide di andare a fare la governante in casa di persone altolocate per aiutare la famiglia caduta in disgrazia. Come si può immaginare, non si tratta di un lavoro facile, soprattutto quando si ha a che fare con ragazzini viziati poco collaborativi e genitori disposti a difenderli sempre.

Attraverso una prosa elegante ci vengono raccontate le contraddizioni dell’epoca vittoriana, con una contrapposizione continua fra l’ignoranza e l’ipocrisia della nobiltà, con i principi morali e religiosi dei popolani come Agnes.

Dunque, ho letto tante recensioni positive in merito, ma personalmente non mi sento di gridare al capolavoro. Precisiamo che non nego l’abilità di scrittura dell’autrice, anche se ho letto solo la traduzione e non l’originale, ma rispetto alla sorella Emily, mi è sembrata un po’ meno capace e coinvolgente.

Mi spiego meglio: Cime Tempestose è un romanzo ricco di poesia, dove si può parlare per ore riguardo alle possibili interpretazioni, considerati i numerosi simbolismi inseriti dalla stessa autrice. Per alcuni ancora oggi non è del tutto chiaro cosa volesse comunicare alla fine: che la bontà trionfa sempre? Oppure avere pietà per il malvagio Heathcliff?

Qui, invece, si lascia poco spazio ai film mentali, anche perché la narrazione viene affidata alla protagonista Agnes, che a volte rallenta di molto il ritmo con le sue elucubrazioni sulla moralità cristiana. Nonostante sia anche io una persona credente, ho trovato questo personaggio un po’ ipocrita e fastidioso: lei che condanna i pregiudizi delle persone altolocate, ne è ugualmente colpevole mettendo tutti i ricchi sullo stesso piano, in quanto li considera superficiali, maleducati, rozzi e viziati, senza prendersi la briga di conoscerli davvero.

A ben guardare, le persone che ricevono elogi da parte sua sono solo coloro che stanno peggio di lei, che sia per una vita infelice o perché hanno meno possibilità economiche.

In sostanza, secondo l’autrice chi è ricco non ha morale, chi è povero invece sicuramente è una persona buona.

Ad un certo punto mi è sembrata un po’ la favola della volpe che non arriva all’uva: la protagonista più volte ammette di non essere particolarmente bella, elegante nei modi, vestita bene ecc., perciò se la prende con chi questi punti di forza li ha e li sfrutta. Fermo restando che anche il personaggio di Rosalie l’ho trovato ugualmente insopportabile, ma se non altro era una ragazzina cresciuta in un ambiente poco sano e spinta a fare scelte sbagliate dagli stessi genitori.

Lasciando da parte questo discorso, bisogna comunque apprezzare la presenza di un tema attualissimo e che a quei tempi sicuramente andava controcorrente, ovvero quello del ruolo femminile. Agnes, infatti, fa di tutto per poter lavorare e contribuire al bilancio familiare, imponendosi di superare l’insicurezza nell’uscire dalla sua comfort zone.

Difatti, dopo essere caduti in disgrazia, chi rialza le sorti della famiglia sono proprio le donne che si rimboccano le maniche e provano a tornare a galla, mentre il padre cade in disperazione.

**Da qui in poi anticipazioni sul finale**

Agnes è una donna colta e intelligente, perciò decide di tentare a fare un lavoro che le consenta di sfruttare le sue capacità. Ci prova per anni con tutte le sue forze, pur lamentandosi a volte per cose a mio avviso assurde, come il fatto di sedersi nel prato per fare lezione.

Alla fine, nonostante il bisogno economico, non è disposta a farsi trattare come un essere inferiore da persone incapaci di guardare al di là del proprio naso, le stesse che possono vantarsi di essere ricche per il semplice fatto di essere nate in famiglie agiate e non per particolari doti intellettuali.

Con grande coraggio abbandona tutto per gettarsi in una vera e propria impresa familiare con la madre, che in poco tempo darà anche i suoi buoni frutti.

Tuttavia, mi sarei aspettata che avesse continuato a lavorare con lei anche dopo il matrimonio, anche perché è andata ad abitare in una contea vicina. Ma in fin dei conti, stiamo sempre parlando dell’epoca vittoriana e già quanto scritto può essere considerato fuori dagli schemi del tempo.

Voto personale 3/5.

Julia

Il giardino dalle mille voci – E. Arenz ed esperienza Club degli Editori

Con la lettura di oggi colgo l’occasione per aggiornarvi sulla mia esperienza come socia del Club degli Editori, al quale ho dedicato un articolo dettagliato che potete trovare qui.

Ormai è da più di un anno che ne faccio parte e penso di poter fare un bilancio sia in positivo, sia in negativo.

Dunque, ho letto spesso critiche sul Club degli Editori, soprattutto in relazione alla presunta difficoltà di cancellarsi come socio oppure rifiutare il libro del mese; in realtà, questi credo siano aspetti superati perché, come spiego nello stesso articolo di cui sopra, esistono diverse procedure per togliersi dai vincoli previsti per i soci.

Gli elementi che personalmente non apprezzo sono principalmente due:

  • Il catalogo che si presenta come ricco di volumi (sono 150 proposte circa ogni mese) ha sempre gli stessi titoli che girano e rigirano, soprattutto quelli che per il momento vanno per la maggiore, i classici tormentoni che potete trovare in ogni gruppo di lettori. Esatto, parlo proprio della saga dei Florio oppure dei romanzi della Pérrin, giusto per fare un paio di esempi. Insomma, a ben vedere, la scelta non è poi così variegata.
  • Il libro del mese è quasi sempre un thriller, cosa che non torna utile per i lettori che, come me, non hanno questo genere fra i propri preferiti. Questo mi spinge a dover controllare costantemente il sito per rifiutare il titolo del momento ed evitare di riceverlo nonostante non abbia alcun interesse a leggerlo (mi è successo almeno un paio di volte).

Di contro, però, ho fatto anche degli ottimi affari come acquistare best seller con uno sconto minimo del 20% oppure tris di libri pagando il 75% in meno!

Il giardino dalle mille voci di Ewald Arenz appartiene proprio a quest’ultima categoria, un romanzo che qui in Italia è quasi del tutto sconosciuto – su Ibs non esistono recensioni e su Amazon non raggiungono nemmeno la trentina – mentre in Germania ha avuto successo fin dal giorno della sua uscita.

Ecco qualche cenno sulla trama: Sally è una diciassettenne che scappa dalla clinica dove era rinchiusa per curare i suoi disturbi alimentari, perché è stufa delle persone che non la capiscono e dettano solo delle regole che lei deve seguire. Nella sua fuga raggiunge un paese di campagna con pochi abitanti e tanta natura, dove sembra che il tempo si sia fermato. Qui ad ospitarla è la taciturna Liss, che non le fa domande personali, ma la coinvolge a poco a poco nel lavoro dei campi, come una sorta di terapia benefica che però riguarda entrambe, perché anche questa donna nasconde dei segreti che la tormentano.

Nonostante, il libro non contenga un gran numero di pagine (superano di poco le duecento), si presenta comunque come una lettura impegnativa perché si concentra molto sull’analisi introspettiva delle protagoniste: da una parte abbiamo una ragazza arrabbiata con il mondo, sempre sulla difensiva, che desidera solo essere lasciata in pace e sentirsi libera.

Dall’altra c’è Liss, una donna che si sente appassire nella sua enorme fattoria, dove cerca di tenere a bada la frustrazione attraverso il piacere che trae dal lavoro nei campi, con i suoi ritmi regolari e la soddisfazione da ciò che produce.

Senza anticipare il finale, fra le due nasce un’amicizia profonda che le spinge a trovare forza l’una nell’altra per germogliare come i fiori dello stesso giardino che le circonda. Il simbolo di questo tentativo di riscatto è rappresentato dal giardino delle pere, che Liss inizialmente tiene gelosamente nascosto, anche perché è legato a sensazioni più negative che positive, per poi diventare una piacevole oasi di pace per entrambe.

Nel corso della storia l’autore accosta spesso le immagini della natura con la lotta interiore delle donne, soprattutto per quanto riguarda Liss, che ha un animo decisamente più tormentato, regalando al lettore un’immagine viva e poetica di ogni sentimento. Questo è uno degli aspetti che più mi sono piaciuti.

Invece, non ho del tutto apprezzato la struttura narrativa: le vicende del presente vengono a volte interrotte da flashback che riguardano il passato di una delle due, ma ci vuole qualche riga di lettura prima di riuscire a orientarsi e capire di chi si sta effettivamente parlando. Senza contare che in quei frangenti i dialoghi vengono riportati senza punteggiatura, rendendoli solo più irritanti, anche se capisco il tentativo di farli sembrare più simili a dei ricordi.

**Da qui in poi possono esserci anticipazioni sul finale**

Il finale della storia non mi è sembrato poi così scontato: non ci sono stravolgimenti nella vita delle due donne a livello fisico, perché Liss alla fine non fugge dalla fattoria, non incontra il figlio Peter, non affronta di petto il padre-padrone ecc. Così come Sally alla fine dovrà comunque tornare a casa ad adempiere ai suoi doveri, fra cui finire la scuola.

L’happy ending, se così si può definire, è tutto concentrato nell’animo delle protagoniste che riescono a vincere sui sentimenti negativi che le imprigionavano: la vera libertà non è quella fisica, ma quella che si ottiene a livello mentale, decidere per sé stessi ciò che rende davvero felici, senza doversi preoccupare di accontentare continuamente qualcuno, con il risultato di ritrovarsi alle soglie della mezza età pieni di rimpianti.

Un messaggio potente che si avverte come un’eco in tutto il romanzo per poi esplodere sul finale.

Attenzione, però, perché questo non significa fare tutto ciò che si vuole, ma trovare una sorta di equilibrio personale. Non a caso, Liss e Sally rappresentano due estremi di un’unica vita, due punti fondamentali nell’esistenza di ciascuna persona: la voglia di “spaccare il mondo” che si ha da ragazzini, in contrapposizione al resoconto che si fa in età più matura.

Non si può vivere per sempre in camper, senza responsabilità e pensieri, così come non si può decidere dall’oggi al domani di trasferirsi in una fattoria sperduta, facendo finta che il resto del mondo non esista più.

In sostanza, libertà non vuol dire fuggire, ma scegliere come affrontare ogni esperienza senza rinunciare alla propria felicità.

Voto 4/5.

Julia

“Quella donna non doveva pensare che lei adesso sarebbe tornata indietro. Non era così debole. Il malleolo bruciava ad ogni pedalata e questo era un bene. Pedalò più in fretta e più forte, si alzò e proseguì stando in piedi. Il vento le asciugò gli occhi. Quando arrivò all’inizio del bosco le bruciavano così tanto i polmoni che neanche più sentiva il malleolo, e riuscì giusto a vedere dove Liss sparì fra gli alberi.” Il giardino dalle mille voci, E. Arenz