Sono sicura che capita a tutti di leggere un qualsiasi libro e dimenticarsi le trama dopo anni, se non addirittura il fatto di averlo letto.
Un grosso “problema” che mi affligge più frequentemente di quanto io possa sopportare, dato che già dopo qualche mese da una qualsiasi lettura, la trama inizia a diventare sfumata, a prescindere da quanto mi sia piaciuta.

Uno di questi è proprio Il più grande uomo scimmia del Pleistocene di Roy Lewis, letto alle scuole medie su indicazione dell’insegnate di lettere, ma finito nel dimenticatoio dopo quasi 20 anni. Mi ricordavo, infatti, solo la lunga fuga di Griselda, in una sorta di rituale di corteggiamento.
È anche vero che rileggendolo da adulta, mi sono resa conto che probabilmente da ragazzina non avrei potuto cogliere gli spunti di riflessione dell’autore sulla società moderna, niente affatto mascherati fra i discorsi e le peripezie di questa bizzarra famiglia di cavernicoli.

Ma prima di esporre il mio pensiero, ecco due parole sulla trama: ci troviamo nel Pleistocene e l’ominide Edward è ossessionato dal progresso, dall’evoluzione e dal migliorare la propria specie; così, come primo passo fa scendere tutta la sua orda dagli alberi, per vivere nelle caverne, fabbricarsi armi e imparare ad utilizzare il fuoco!
Non mancano ovviamente le critiche, principalmente da parte dello zio Vania, fortemente ancorato alle tradizioni (o alle liane degli alberi) e atterrito all’idea che tutte queste nuove scoperte possano rivoltarsi contro la stessa specie. Così i suoi dibattiti con il fratello ricordano un po’ quelli che si vedono ancora oggi, fra gli estremisti religiosi da una parte e gli uomini di scienza dall’altra.
Certo, stiamo parlando di figure stereotipate, ma il succo è chiaro. Fra l’altro, non penso sia un caso che spesso e volentieri sono state inserite citazioni bibliche all’interno di contesti ironici, anche per sottolineare la posizione degli stessi personaggi.
Ma il punto di vista dell’autore non sembra protendere troppo da una parte o dall’altra, perché la narrazione è affidata a Ernest, uno dei figli più grandi di Edward, nonché il più filosofo e sognatore, capace di vedere i punti di criticità e le debolezze di entrambe le parti, pur provando maggiore ammirazione nei confronti della determinazione paterna.
Un altro tema che salta all’occhio, soprattutto ai recensori più moderni, è il ruolo femminile descritto nella storia, che rimane circoscritto alla prole, al mantenimento dell’ordine nella caverna e alla cieca ubbidienza nei confronti del proprio compagno.
Ad avvalorare le aspre critiche ci sono anche gli studi archeologici, che parlano dei numerosi compiti che dovevano avere le cavernicole in quel periodo: non solo “figliare” quindi, ma anche cacciare, difendere l’accampamento, costruire e raccogliere cibo, proprio come i maschi.
A parer mio, queste polemiche non hanno molto senso associate ad un libro del genere, prima di tutto perché è stato pubblicato nel 1960 e sappiamo bene come si viveva in quegli anni; in secondo luogo, è ambientato nel Pleistocene, con protagonisti dei cavernicoli, che non sono proprio un esempio di civiltà moderna. Difatti, non si parla solo di donne trattate come creature inferiori, ma anche di omicidi senza rimorsi, pregiudizi, razzismo e persino incesto.
Infine, un’ultima critica mossa all’autore sono stati i dialoghi anacronistici, nei quali i personaggi si pongono dilemmi esistenziali che farebbe solo l’uomo moderno; una scelta che in realtà doveva servire per condire il tutto con della sana ironia, che personalmente ho apprezzato, perché rende ancora più ridicoli i loro comportamenti retrogradi.
Tutto sommato, la considero una lettura piacevole, scorrevole e capace di strappare qualche sorriso.
Il finale, però, l’ho trovato un po’ troppo frettoloso.
Voto 4/5.