Il più grande uomo scimmia del Pleistocene – R. Lewis

Sono sicura che capita a tutti di leggere un qualsiasi libro e dimenticarsi le trama dopo anni, se non addirittura il fatto di averlo letto.

Un grosso “problema” che mi affligge più frequentemente di quanto io possa sopportare, dato che già dopo qualche mese da una qualsiasi lettura, la trama inizia a diventare sfumata, a prescindere da quanto mi sia piaciuta.

Uno di questi è proprio Il più grande uomo scimmia del Pleistocene di Roy Lewis, letto alle scuole medie su indicazione dell’insegnate di lettere, ma finito nel dimenticatoio dopo quasi 20 anni. Mi ricordavo, infatti, solo la lunga fuga di Griselda, in una sorta di rituale di corteggiamento.

È anche vero che rileggendolo da adulta, mi sono resa conto che probabilmente da ragazzina non avrei potuto cogliere gli spunti di riflessione dell’autore sulla società moderna, niente affatto mascherati fra i discorsi e le peripezie di questa bizzarra famiglia di cavernicoli.

Ma prima di esporre il mio pensiero, ecco due parole sulla trama: ci troviamo nel Pleistocene e l’ominide Edward è ossessionato dal progresso, dall’evoluzione e dal migliorare la propria specie; così, come primo passo fa scendere tutta la sua orda dagli alberi, per vivere nelle caverne, fabbricarsi armi e imparare ad utilizzare il fuoco!

Non mancano ovviamente le critiche, principalmente da parte dello zio Vania, fortemente ancorato alle tradizioni (o alle liane degli alberi) e atterrito all’idea che tutte queste nuove scoperte possano rivoltarsi contro la stessa specie. Così i suoi dibattiti con il fratello ricordano un po’ quelli che si vedono ancora oggi, fra gli estremisti religiosi da una parte e gli uomini di scienza dall’altra.

Certo, stiamo parlando di figure stereotipate, ma il succo è chiaro. Fra l’altro, non penso sia un caso che spesso e volentieri sono state inserite citazioni bibliche all’interno di contesti ironici, anche per sottolineare la posizione degli stessi personaggi.

Ma il punto di vista dell’autore non sembra protendere troppo da una parte o dall’altra, perché la narrazione è affidata a Ernest, uno dei figli più grandi di Edward, nonché il più filosofo e sognatore, capace di vedere i punti di criticità e le debolezze di entrambe le parti, pur provando maggiore ammirazione nei confronti della determinazione paterna.

Un altro tema che salta all’occhio, soprattutto ai recensori più moderni, è il ruolo femminile descritto nella storia, che rimane circoscritto alla prole, al mantenimento dell’ordine nella caverna e alla cieca ubbidienza nei confronti del proprio compagno.

Ad avvalorare le aspre critiche ci sono anche gli studi archeologici, che parlano dei numerosi compiti che dovevano avere le cavernicole in quel periodo: non solo “figliare” quindi, ma anche cacciare, difendere l’accampamento, costruire e raccogliere cibo, proprio come i maschi.

A parer mio, queste polemiche non hanno molto senso associate ad un libro del genere, prima di tutto perché è stato pubblicato nel 1960 e sappiamo bene come si viveva in quegli anni; in secondo luogo, è ambientato nel Pleistocene, con protagonisti dei cavernicoli, che non sono proprio un esempio di civiltà moderna. Difatti, non si parla solo di donne trattate come creature inferiori, ma anche di omicidi senza rimorsi, pregiudizi, razzismo e persino incesto.

Infine, un’ultima critica mossa all’autore sono stati i dialoghi anacronistici, nei quali i personaggi si pongono dilemmi esistenziali che farebbe solo l’uomo moderno; una scelta che in realtà doveva servire per condire il tutto con della sana ironia, che personalmente ho apprezzato, perché rende ancora più ridicoli i loro comportamenti retrogradi.

Tutto sommato, la considero una lettura piacevole, scorrevole e capace di strappare qualche sorriso.

Il finale, però, l’ho trovato un po’ troppo frettoloso.

Voto 4/5.

Grandi classici: Agnes Grey – A. Brontë e Fiera del Libro

Nel mese di settembre mio marito (G.) decide di farmi una sorpresa e mi porta al centro di Bologna, con mia grande perplessità, dato che entrambi detestiamo le città in genere (non a caso abitiamo alle pendici di una montagna).

Prima di scendere dall’auto lo vedo prendere il sacco di tela che teniamo come scorta per la spesa, il quale puntualmente dimentichiamo appena entriamo all’Esselunga.

“Questo ci servirà…” commenta con un sorriso malizioso. Nel frattempo, io inizio a chiedermi cos’abbia in mente: dovevamo venire fino a Bologna per girare il mercato??

Intorno a noi zero indizi: abbiamo parcheggiato proprio nei pressi della stazione, dove da una parte c’è gente che si muove con passo felpato vestita come me quando scendo in paese per prendere le crocchette dei gatti e da un’altra, in un’auto parcheggiata, due ragazzi sono intenti a registrare una story su un social.

“Ma dove stiamo andando?” chiedo con la mia solita pazienza, cercando di nascondere una punta di nervosismo.

“Adesso vedi… Tempo al tempo.”

Insomma, ci muoviamo nel traffico attraversando strade bagnate e penso che detesto anche uscire con la pioggia. Mi guardo attorno per cercare di orientarmi, ma non vedo niente di familiare.

Alla fine, in una piazza (XX settembre) scopro un tendone enorme dove si intravedono delle bancarelle: è la Fiera del Libro di Bologna, attiva dal 1927! Un errore imperdonabile non averla mai vista o conosciuta, soprattutto per una lettrice che abita a circa un’oretta di distanza.

Mentre G. spiega soddisfatto di cosa si tratta, per l’entusiasmo smetto di ascoltare dopo 0,2 secondi e inizio ad aggirarmi per i banconi, come una bambina in mezzo ai giocattoli. Volumi di ogni genere e dimensione riempiono ogni singolo centimetro delle superfici, sotto gli occhi estasiati di lettori e collezionisti incalliti. Osservare quel mare di parole è stato divertente: sembrava una caccia al tesoro per trovare l’affare migliore.

Inutile dire che alla fine il sacco di tela è tornato utile e ho comprato ben 11 libri, spendendo circa una sessantina di euro. Fra questi, grandi classici e best seller a prezzi davvero stracciati, che hanno riempito altri ripiani della mia libreria in attesa di essere letti nelle prossime vite parallele.

La Fiera si è conclusa il 7 novembre, ma presumo che venga riaperta anche l’anno prossimo più o meno nello stesso periodo.

Per quanto riguarda i libri acquistati, tra questi ho preso il grande classico Agnes Grey di Anna Brontë, la sorella minore di Charlotte ed Emily. Purtroppo, si tratta di uno dei due soli volumi da lei scritti, data la sua morte precoce all’età di 29 anni a causa della tubercolosi.

La storia narrata risulta essere in parte autobiografica: Agnes è una ragazza di circa 18 anni che decide di andare a fare la governante in casa di persone altolocate per aiutare la famiglia caduta in disgrazia. Come si può immaginare, non si tratta di un lavoro facile, soprattutto quando si ha a che fare con ragazzini viziati poco collaborativi e genitori disposti a difenderli sempre.

Attraverso una prosa elegante ci vengono raccontate le contraddizioni dell’epoca vittoriana, con una contrapposizione continua fra l’ignoranza e l’ipocrisia della nobiltà, con i principi morali e religiosi dei popolani come Agnes.

Dunque, ho letto tante recensioni positive in merito, ma personalmente non mi sento di gridare al capolavoro. Precisiamo che non nego l’abilità di scrittura dell’autrice, anche se ho letto solo la traduzione e non l’originale, ma rispetto alla sorella Emily, mi è sembrata un po’ meno capace e coinvolgente.

Mi spiego meglio: Cime Tempestose è un romanzo ricco di poesia, dove si può parlare per ore riguardo alle possibili interpretazioni, considerati i numerosi simbolismi inseriti dalla stessa autrice. Per alcuni ancora oggi non è del tutto chiaro cosa volesse comunicare alla fine: che la bontà trionfa sempre? Oppure avere pietà per il malvagio Heathcliff?

Qui, invece, si lascia poco spazio ai film mentali, anche perché la narrazione viene affidata alla protagonista Agnes, che a volte rallenta di molto il ritmo con le sue elucubrazioni sulla moralità cristiana. Nonostante sia anche io una persona credente, ho trovato questo personaggio un po’ ipocrita e fastidioso: lei che condanna i pregiudizi delle persone altolocate, ne è ugualmente colpevole mettendo tutti i ricchi sullo stesso piano, in quanto li considera superficiali, maleducati, rozzi e viziati, senza prendersi la briga di conoscerli davvero.

A ben guardare, le persone che ricevono elogi da parte sua sono solo coloro che stanno peggio di lei, che sia per una vita infelice o perché hanno meno possibilità economiche.

In sostanza, secondo l’autrice chi è ricco non ha morale, chi è povero invece sicuramente è una persona buona.

Ad un certo punto mi è sembrata un po’ la favola della volpe che non arriva all’uva: la protagonista più volte ammette di non essere particolarmente bella, elegante nei modi, vestita bene ecc., perciò se la prende con chi questi punti di forza li ha e li sfrutta. Fermo restando che anche il personaggio di Rosalie l’ho trovato ugualmente insopportabile, ma se non altro era una ragazzina cresciuta in un ambiente poco sano e spinta a fare scelte sbagliate dagli stessi genitori.

Lasciando da parte questo discorso, bisogna comunque apprezzare la presenza di un tema attualissimo e che a quei tempi sicuramente andava controcorrente, ovvero quello del ruolo femminile. Agnes, infatti, fa di tutto per poter lavorare e contribuire al bilancio familiare, imponendosi di superare l’insicurezza nell’uscire dalla sua comfort zone.

Difatti, dopo essere caduti in disgrazia, chi rialza le sorti della famiglia sono proprio le donne che si rimboccano le maniche e provano a tornare a galla, mentre il padre cade in disperazione.

**Da qui in poi anticipazioni sul finale**

Agnes è una donna colta e intelligente, perciò decide di tentare a fare un lavoro che le consenta di sfruttare le sue capacità. Ci prova per anni con tutte le sue forze, pur lamentandosi a volte per cose a mio avviso assurde, come il fatto di sedersi nel prato per fare lezione.

Alla fine, nonostante il bisogno economico, non è disposta a farsi trattare come un essere inferiore da persone incapaci di guardare al di là del proprio naso, le stesse che possono vantarsi di essere ricche per il semplice fatto di essere nate in famiglie agiate e non per particolari doti intellettuali.

Con grande coraggio abbandona tutto per gettarsi in una vera e propria impresa familiare con la madre, che in poco tempo darà anche i suoi buoni frutti.

Tuttavia, mi sarei aspettata che avesse continuato a lavorare con lei anche dopo il matrimonio, anche perché è andata ad abitare in una contea vicina. Ma in fin dei conti, stiamo sempre parlando dell’epoca vittoriana e già quanto scritto può essere considerato fuori dagli schemi del tempo.

Voto personale 3/5.

Julia

Grandi Classici: Uno, Nessuno e Centomila

In questo periodo per finire un libro sto impiegando davvero un’eternità: complice la mancanza di tempo causata dal tanto lavoro (e menomale!) e la mia lentezza spropositata nella lettura.

Fra l’altro mentre sto scrivendo – ora locale 22.53 – si può dire che sia il ritratto della gioia e fra le cause scatenanti ci possono essere:

  • I peperoni ripieni che non ho digerito dal pranzo
  • Le palpebre che stanno per chiudere i battenti
  • La stagione delle piogge che non ha nessuna intenzione di darci tregua

Insomma, problemi esistenziali di una certa portata, ma non sono nulla in confronto a quelli di Pirandello in Uno, Nessuno e Centomila, anticipando di quasi cent’anni la crisi di identità dell’uomo contemporaneo.

Per chi non lo conoscesse ancora, ammesso che ci sia davvero qualcuno, si tratta di un lungo monologo di Vitangelo Moscarda, vittima di una tragica vicenda, ovvero la scoperta di essere estraneo a sé stesso. E come è iniziato il tutto? Da un naso storto che pende verso destra!

Non fraintendete, non derido affatto Pirandello, anzi, per me era un genio, perché riusciva sempre a mettere in discussione anche ciò che diamo per assodato, persino le poche certezze che abbiamo nella vita, alla faccia del Relativismo.

Quel povero Moscarda nel libro era stato etichettato come un pazzo, ma aveva ragione! Come ci vediamo noi, non è come ci vedono gli altri e neanche come siamo realmente. Se ad un primo impatto può sembrare una conclusione banale, in realtà porta ad una cascata di conseguenze. Per esempio, a quanti di noi è capitato di accusare gli altri di averci frainteso o di non conoscerci abbastanza? E se fossimo noi in realtà a non conoscerci veramente?

Sono convinta che ognuno di noi costruisca un’immagine di sé stesso mischiando desideri, paure, convinzioni per dare un senso logico a dei comportamenti altrimenti inspiegabili ecc. Poi ci autoconvinciamo che sia quella corretta – del resto, chi può conoscerci meglio di noi stessi? – e lottiamo con le unghie e con i denti per far sì che anche gli altri la vedano come tale.

Ci danno dei permalosi? È perché non capiscono di essere offensivi. Ci dicono che siamo esagerati? “Non sai perché agisco così!” è la nostra risposta. Ci fanno un complimento? Anche lì andiamo in crisi pensando che siano stati troppo buoni.

Non solo, anche gli altri ci mettono del loro, perché una volta che si fanno un’idea su una persona, quella non si schioda ed ogni suo comportamento troverà sempre una spiegazione all’interno di quella stessa idea. Avete notato che se vi sta antipatico qualcuno, anche se dovesse diventare un missionario, comunque trovereste una ragione per storcere il naso?

Eppure, ci saranno pure degli elementi oggettivi su cui basarsi, una sorta di punto di partenza? Pirandello smonta anche quelli in un modo che ancora fatico a comprendere.

Insomma, ci sarebbe tanto da discutere, ma lascio la parola al maestro (anche perché è ora di andare a dormire). Direi che il lento declino del povero Moscarda è più che sufficiente per comprendere il concetto e far diventare un po’ pazzi anche voi!

Voto 5/5.

Julia

“Una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile.” Uno, Nessuno e Centomila di L. Pirandello

Grandi Classici: Il Vecchio e il Mare

Non so quante volte mi è capitato di leggere nei gruppi di lettura la fatidica domanda “c’è un grande classico che non avete mai finito oppure non apprezzato?”, declinata in tutte le sue varianti.

Chiaramente le risposte sono varie: alcune prevedibili, poiché citano autori che notoriamente scrivono in maniera molto prolissa e “pesante”, altre invece sono voci fuori dal coro, lanciando una bomba ad orologeria come “A me non è piaciuto Il buio oltre la siepe!” (A proposito, proprio qui trovi la mia recensione).

Un titolo che ho trovato spesso e volentieri associato alla parola noia è Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway, considerato uno degli autori americani più apprezzati, la cui opera è entrata a far parte della top 100 libri di GreatestBooks (qui la lista completa).

Come poteva essere considerato noioso un romanzo che gode di una tale fama? Dovevo indagare, perciò, approfittando di uno sconto sul sito di Libraccio, l’ho acquistato insieme ad altri must have.

La trama è questa: ci troviamo a Cuba e Santiago è un pescatore molto anziano che non piglia pesci (letteralmente) da ben 84 giorni. Poiché il ragazzo che lo aiutava è stato costretto dai genitori a lavorare in un altro peschereccio, esce al largo da solo per tentare la sorte. Si sente ottimista e, difatti, trova un enorme pesce spada in mare aperto. Inizia così una dura lotta tra uomo e natura, che porterà Santiago a maturare la consapevolezza della propria e dell’altrui forza.

Stando alle mie ricerche, perché non ho assolutamente la pretesa di fare un’analisi del testo mia (non ne avrei nemmeno le competenze), ho capito che sostanzialmente esistono due chiavi di lettura.

La prima è più letterale ed è anche quella che rende il romanzo adatto ad un pubblico preadolescenziale. Abbiamo un vecchio pescatore che va al largo per l’ennesima volta sperando di tornare con un ricco bottino. Ciò che trova è un pesce spada che non ha intenzione di morire, perciò se lo porta a spasso come un cagnolino nei Caraibi.

In questo senso, la parte centrale del testo risulta piuttosto noiosa, con un ritmo ripetitivo e monotono, durante il quale Santiago inizia a dare i numeri, un po’ per la disidratazione, un po’ perché si sa che gli anziani amano parlare anche da soli.

Qui certamente è dove molti lettori hanno abbandonato. Ho letto persino un commento che insinuava una sorta di interesse perverso da parte del vecchio nei confronti del ragazzo, il quale non era potuto andare a pescare con lui.

Sull’altro fronte, abbiamo la volontà di ricercare un significato nascosto dietro ad una storia tanto semplice. Fra le varie interpretazioni c’è chi vede la rappresentazione della solitudine associata alla vecchiaia ed è una questione che trapela spesso nelle parole e pensieri di Santiago, che comincia ad apprezzare la compagnia del suo stesso avversario.

O ancora, la dura lotta del vecchio con il pesce è un elogio alla perseveranza: Santiago, nonostante la sua veneranda età, ha sempre i riflessi pronti, applica le conoscenze al meglio delle sue capacità e non si arrende mai di fronte alle situazioni infauste, anche quando è evidente che ormai ne uscirà sconfitto.

Inoltre, in questo romanzo la natura è coprotagonista e guadagna tutto il nostro rispetto: il pesce spada lotta per la sua vita con grande dignità, ma viene sopraffatto a causa delle macchinazioni ingannevoli dell’uomo. Nonostante ciò, sarà la natura stessa a ripristinare l’equilibrio, costringendo il pescatore a tornare a casa con il simbolo della sua sconfitta di fronte all’indomabile mare.

Delle interpretazioni molto interessanti che mi sono piaciute, poiché rendono ancora più poetiche le vicende del libro.

Per quanto mi riguarda, ciò che personalmente ho visto nella storia è l’ironia della vita: a volte ci si affanna tanto per ottenere qualcosa di grande, che ci consenta di guadagnare la stima degli altri, spinti in larga misura dal nostro orgoglio (anche se vogliamo far credere che sia per necessità), da perdere di vista la nostra natura impotente di fronte alla vita stessa; e difatti, proprio quando iniziamo a gongolare con il nostro bottino fra le mani, arrivano gli imprevisti che lo distruggono pezzo dopo pezzo. Cosa ci rimane? Sicuramente una maggiore saggezza di fronte a questa esperienza.

Voto 4/5.

Julia

“Nessuno dovrebbe mai restar solo, da vecchio, pensò. Ma è inevitabile.” Il vecchio e il mare, E. Hemingway

Grandi classici: Canne al vento

Quest’estate per le vacanze mi sono recata per un paio di giorni nella bellissima Firenze, una città che desideravo visitare da tanto tempo. “Ma che c’entra con questo grande classico?”, direte voi giustamente. In effetti nulla, dato che stiamo parlando di due ambientazioni diverse, dove la Deledda descrive in maniera a dir poco magistrale una spettacolare Sardegna rurale di più di un secolo fa. Il fatto è che proprio al Libraccio vicino alla Cattedrale di Santa Maria del Fiore ho trovato un’offerta pazzesca sui grandi classici.

Fosse per me ne avrei presi a decine, ma siccome mi aspettavano ancora altri giorni di vacanza e non era il caso di sperperare tutto in una volta, ho optato per Deledda e Flaubert (Madame Bovary). Per altro questa collana di Crescere Edizioni mi piace molto, sia per la copertina, sia per il segnalibro staccabile in fondo al volume.

Alla fine ho scelto di recarmi nella Sardegna deleddiana, dove le vicende delle tre sorelle Pintor si mescolano ad un paesaggio contadino, nel quale si scoprono antiche tradizioni e credenze magiche popolane. Il vero protagonista alla fine è il fedele servitore Efix, rimasto ancorato a questa famiglia, nonostante il prestigio decaduto come il rudere che ancora abitano. La sua devozione per loro è così sconfinata che non se la sente di ricordarle i pagamenti che ancora non ha ricevuto. Ma è anche vero che dentro di sé nasconde un oscuro segreto, che lo spingerà ad intraprendere una sorta di percorso di espiazione.

Le tre sorelle Pintor dal canto loro, sono delle zitelle di età non ben definita ed estremamente diverse l’una dall’altra. Ognuna rappresenta simbolicamente un’inclinazione umana differente: Ruth, nonostante sia la maggiore, appare sempre calma e assertiva, lasciandosi trascinare dalle scelte delle altre. Ester è come una mamma, sempre paziente e amorevole, mostra una particolare devozione religiosa e viene presentata con l’inconfondibile scialle sulle spalle, che sistema di continuo. Poi c’è Noemi, la più giovane dalla risposta sempre pronta e cinica. Fra le note viene definita come la donna del ricordo e del rimpianto, e questa cosa mi ha colpito molto, come se in qualche modo la capissi più delle altre.

Noemi mi ha dato l’impressione di essere una donna indurita da una vita difficile, che ormai non si illude più di niente, lasciando ampio spazio al cinismo. La sua ironia amara viene spesso interpretata come una sorta di cattiveria, quando in realtà penso sia questione di autodifesa. Il fatto che si perda sempre nei ricordi, rimuginando in continuazione, è un atteggiamento in cui mi sono ritrovata: sai che ti fa del male, ma lo fai lo stesso perché appena ti ritrovi sola con i tuoi pensieri è la cosa che ti riesce più facile. In qualche modo si cerca di dare un senso anche a ciò che è stato.

E così mi sembra di vederla la giovane Naomi seduta a cucire con il viso corrucciato, mentre pensa ad un passato che potrebbe solo farle del male. Nonostante la sua età, si sente già vecchia, perché sostanzialmente si sta consumando da sola.

È l’unica che si oppone all’arrivo del nipote Giacinto. Eh sì, non l’ho detto: le Pintor erano quattro! Lia è la sola che è riuscita a scappare da una vita in catene, chiusa in casa a fare la serva insieme alle sorelle per volere di un padre molto geloso. Lia probabilmente ci ha visto lungo e ha deciso di fuggire, prima di appassire come le altre. Così è partita, si è sposata e ha avuto un figlio. In contesti come questi, non mi stupisce che chi fugge da una condizione difficile, invece di accettarla con un sentimento arrendevole, viene mal visto e detestato. Tutto ciò che è legato a Lia, infatti, Giacinto compreso, è visto come una fonte di presagio.

Un destino al quale comunque nessuno può sfuggire: “Siamo come canne al vento”, afferma lo stesso Efix più volte nel romanzo.

Al di là dell’analisi dei personaggi, consiglio vivamente la lettura di questo grande classico anche per la maestria nella narrazione di Grazia Deledda (non a caso è un premio Nobel), capace di narrare come se si stesse leggendo una lunga poesia. Uno stile che culla da inizio a fine pagina e ci immerge nella bellissima Sardegna di un secolo fa, ricca di magia e tradizioni.

Ci sarebbe tanto altro da dire, ma non posso tenervi incollati al mio blog per ore! Ammesso che abbiate avuto la pazienza di arrivare a fine pagina… 😛

Voto 5/5

Julia

Grandi Classici: I Malavoglia

Mentre molti sgomitano per accaparrarsi il secondo volume della saga dei Florio, scritta da Stefania Auci, ecco che io, sempre sul pezzo, scelgo letture più classiche, sempre ambientate in Sicilia, sempre avendo a che fare con la discesa di una nota famiglia, ma con uno degli autori che più apprezzo. Eh già, sto proprio parlando de I Malavoglia di Giovanni Verga.

Impossibile non conoscere la storia, anche solo vagamente, dato che si tratta di un testo che si studia alle superiori, quando si parla della corrente letteraria del “verismo”. A tal proposito, mi sento di chiedere scusa alla mia insegnante di italiano, che dopo averci caldamente invitato a leggerlo, l’ho ignorata spudoratamente, preferendo altre letture molto più leggere. A quei tempi, infatti, la dura realtà raccontata dal Verga, unita ad uno stile d’altri tempi, la consideravo fin troppo pesante. Difatti, preferivo sognare ad occhi aperti i vampiri della Meyer o i galantuomini romantici della Austen. Ebbene sì, l’ho confessato! Ma sapete? Come sul cibo, anche sulla lettura si cambiano gusti dopo anni (per fortuna, in certi casi!).

In tutto ciò, non ho ancora parlato della trama. In questo romanzo si parla delle sventure continue della famiglia Toscano, detti Malavoglia, pescatori di Acitrezza, con una descrizione estremamente cruda della loro vulnerabilità di fronte alla natura e alla storia.

Nonostante si tratti di un romanzo risalente alla fine del XIX secolo, ho trovato degli spunti di riflessione molto attuali, soprattutto per quanto riguarda i contrasti all’interno della stessa famiglia. Il giovane ‘Ntoni mi ha ricordato molto i discorsi che ho sentito da parte di ragazzi molto più piccoli di me: la perplessità di fronte ad una vita di stenti, spaccandosi la schiena per quattro spiccioli. Mentre per il patriarca il duro lavoro era un’attività dignitosa e onesta, per il nipote non era altro che un accontentarsi a sopravvivere. Penso che di fronte ad un contrasto del genere, da parte delle nuove generazioni ci si possono aspettare due strade: una maggiore ambizione per rompere la catena del “volersi accontentare, tanto è pur sempre un lavoro”, oppure soccombere nel proprio malcontento. E chi ha letto il libro, sa come sia andata a finire per ‘Ntoni.

Un’altra questione interessante è legata agli abitanti di Acitrezza. Mi hanno ricordato tanto le chiacchere che sentivo dai più anziani del paese di origine di mio padre, quando scendevamo per le vacanze. In queste piccole realtà, ho riscontrato gli stessi pettegolezzi presenti nel libro, i medesimi motivi futili per offendersi con qualcuno, le dicerie che corrono e si basano sul sentito dire oppure su un’occhiata veloce, la cattiva reputazione che a volte viene affibbiata per malintesi…insomma, a più di cento anni di distanza, le cose non sembrano essere cambiate per alcuni posti.

Lo stile di Verga mi piace molto: descrive le vicende dei Malavoglia con molta crudezza, senza indorare la pillola al lettore, ma allo stesso tempo traspare una sorta di tenerezza nei confronti di questa famiglia che, dopo ogni mala sorte, cerca di riprendersi con dignità. Il tutto senza scadere nel populismo.

Unico neo, se proprio voglio fare la pignola, è che ci ho messo un po’ ad abituarmi ai suoi salti di punti di vista, che cambiavano in maniera repentina da un paragrafo ad un altro, nonostante mantenesse la terza persona. A parte questo, direi voto 4.5/5.

“Quando uno lascia il suo paese è meglio che non ci torni più, perché ogni cosa muta faccia mentre egli è lontano, e anche le facce con cui lo guardano sono mutate, e sembra che sia diventato straniero anche lui.” I Malavoglia, G. Verga

Grandi classici: l’amore ai tempi del colera

Avrei voluto scrivere questa recensione stanotte, ma i miei occhi dopo il lavoro urlavano pietà, perciò ho lasciato perdere. Anche perché, visto che avrei dovuto scrivere riguardo ad un grande classico “intoccabile”, sarebbe stato meglio farlo con la coscienza lucida e attiva!

Veniamo alla trama, che riporto soprattutto per quelle brutte perzone che, come me, sono rimaste indietro nella lettura dei grandi classici. Il protagonista indiscusso di questo romanzo, non è tanto Florentino Ariza, ma il suo amore incondizionato nei confronti di Fermina Daza, una fanciulla con la quale ha vissuto per breve tempo un amore platonico, e che poi l’ha rifiutato una volta diventata più matura. Florentino non la dimentica mai, struggendosi mentre lei prosegue con la sua vita e si sposa con il giovane medico Juvernal d’Urbino. Dovrà attendere esattamente cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, prima di poter vedere realizzato il suo sogno.

Un romanzo celebre, pubblicato per la prima volta agli inizi degli anni ’80 e che, a distanza di decenni, ancora continua ad essere apprezzato anche dalle generazioni più giovani.

Per quanto mi riguarda, la mia opinione si è letteralmente spaccata, perché ho dovuto prendere in considerazione aspetti diversi del libro e, ancora adesso, non saprei dare un voto personale univoco. Partendo dallo stile di scrittura, è innegabile quanto la mano di Marquez sia a dir poco magistrale. La sua narrazione, per quanto presenti molti punti ripetitivi, coinvolge e stupisce: le metafore sono usate con arguzia e le pagine scorrono veloci, in una narrazione che rispecchia lo stato d’animo del protagonista. Difatti, in maniera poetica ci viene trasmesso tutto il senso di frustrazione di Florentino di fronte ad una donna che non può avere. Certo, si consola con il restante 99,9% del pianeta Terra, ma alla fine rimane solo un senso di solitudine e, a parer mio, la sua figura suscita una grande pena. Del resto, persino Fermina quando lo scorgeva dalla finestra della sua abitazione, era solita esclamare “Pover’uomo!”.

Di contro, non sono riuscita a simpatizzare per niente con il protagonista. Non solo mi ha fatto pena all’inizio, ma via via che proseguivo nella lettura ho cominciato a non sopportarlo! Parto dicendo che per me, il suo non è amore, anzi, sembra più un’ossessione nei confronti di una donna che nemmeno conosce. Florentino si innamora dell’idea angelica che ha di Fermina, un po’ come Dante con la sua Beatrice.

Adesso parto con lo SPOILER!

Alla fine, quando lei rimane vedova, lui riprende a corteggiarla in maniera molto dolce, lo ammetto. Ma la magia si spegne subito: lei sembra che si conceda per fuggire alla cruda mediocrità della sua vita (non a caso si rifiuta di scendere dal battello, per continuare a vivere in una sorta di sogno sospeso), lui è contento perché ha raggiunto il suo scopo, che suona quasi come un accanimento egoistico. Fra l’altro, non dimentichiamoci che, proprio sul finale, Florentino raggiunge livelli di squallore degni di nota, quando da ultrasettantenne intraprende una relazione con una ragazza di appena quattordici anni, approfittando del fatto che sia stato nominato suo tutore. Lui stesso ci tiene a precisare che gli sembra una bambina, come se la cosa fosse normale. Quando lei si suicida, ciò che conta è aver raggiunto il suo scopo: due lacrime in bagno, della serie “ammazzà se l’ho fatta grossa stavolta!”, e passa la paura. Caro Florentino, non è che Fermina si sia persa sta grande occasione…

Voto 3/5.

“Ben diversa sarebbe stata la vita per tutti e due se avessero saputo per tempo che era più facile eludere le grandi catastrofi matrimoniali che le minuscole miserie di ogni giorno. Ma se avevamo imparato qualcosa insieme era che la saggezza ci arriva quando non serve più a nulla.” L’amore ai tempi del colera, G.G.Marquez

Grandi classici: Cime tempestose

Quando frequentavo il liceo, mi ricordo che avevo sentito parlare di Cime Tempestose di Emily Bronte perché veniva citato più volte nel romanzo Twilight. Sì, lo so, non è molto lusinghiero per questo classico della letteratura, intanto trovarmelo lì ha stuzzicato la mia curiosità, prima ancora che venisse proposto durante lo studio della Letteratura inglese. Insomma per capire meglio le similitudini di cui parlava EdwardFairyGlittering, ho deciso di cimentarmi in questa nuova struggente storia d’amore.

È il 1801 è il ricco Mr Lockwood giunge a Trushcross Grange dopo una delusione amorosa, per cercare un po’ di solitudine, affittando la tenuta di un rude gentiluomo di nome Heathcliff. Quando si reca a fargli visita nella vicina proprietà di Wuthering Heights (Cime Tempestose, appunto), rimane perplesso di fronte al bizzarro assortimento degli inquilini che lo abitano: insieme al padrone di casa, infatti, vivono una scontrosa adolescente presentata come sua nuora e un giovane che, per quanto sembri un parente, si comporta come un servo analfabeta. Quando fuori inizia ad imperversare la tempesta, a malincuore è costretto a passare la notte a Wuthering Heights, ma accadono cose bizzarre. La visione di uno spettro di bambina che bussa alle finestre lo fa urlare di terrore, facendo precipitare nella stanza da letto Heathcliff che lo caccia fuori per aprire le finestre e invitare ad entrare questo spirito con fare disperato. Quando Mr Lockwood torna a casa, si ammala nel giro di breve tempo e, durante la convalescenza, conosce la serva Nelly Dean che gli racconta la storia del padrone di casa, che risale a circa quarant’anni prima.

Unica opera della giovane Bronte, all’epoca della sua uscita era stata accolta con critiche asprissime, dal momento che rispetto ai canoni del tempo, si presentava in maniera innovativa, sia per struttura sia nella descrizione della crudeltà fisica e mentale dei protagonisti. Dopo averlo letto, ho capito anche i paragoni di Edward: una storia d’amore fra un uomo dal fascino maledetto e una fanciulla che viene portata sulla cattiva strada proprio da lui stesso. Sarà stato forse un tentativo della Meyer di dare maggior spessore ad un flirt adolescenziale? Ma il paragone finisce qui, perché in Cime Tempestose c’è molto di più! Prima di tutto il genio dell’autrice parte dalla descrizione dei luoghi che rispecchiano chi li abita, in un continuo contrasto fra bene e male, amore e odio, passione e vendetta. Il libro ruota tutto intorno alla gelosia di Heathcliff che lo porta inevitabilmente all’autodistruzione: la sua diventa una lenta discesa verso il baratro e la follia, dove trascina dietro uno per uno i membri delle famiglie Earnshaw e Linton. Nonostante sia il protagonista di questa vicenda, insieme a Cathy, e sebbene avessimo visto le ingiustizie che ha dovuto subire fin da piccolo a causa delle sue origini, non riusciamo comunque a simpatizzare con la sua vendetta: da vittima diventa peggiore dei suoi stessi carnefici.

Cathy, che visto il paragone con Twilight forse qualcuno poteva immaginarsela pura e ingenua, in realtà a parer mio è anch’essa perfida nel suo egoismo. Fin da piccola lega con Heathcliff, con il quale instaura un rapporto che va ben oltre l’amicizia, passando ore e ore in sua compagnia chiudendosi in un mondo a parte, gelosamente custodito da entrambi. Proprio qui ci rendiamo conto quanto i due siano simili. Quando lei, a seguito di una ferita, ha la possibilità di frequentare assiduamente i Linton, comincia a voltare le spalle ad Heathcliff ritenendo che un’unione con lui possa rovinarle la reputazione. Celebre è la sua dichiarazione d’amore sentita per metà dal giovanotto, che decide così di sparire per anni causando in lei un tracollo nervoso. Quando ritorna, non appena si rende conto delle intenzioni di Heathcliff, cerca comunque di mettere in guardia la cognata, ma più che atti di generosità, a me davano l’impressione di essere dettati dalla gelosia.

Insomma una lunga storia d’amore struggente, dove l’autrice estremizza il concetto di vendetta per enfatizzarne le terribili conseguenze. Ma nonostante Heathcliff si sia prodigato tanto per bruciare tutto intorno a sé, la speranza trova sempre la strada per ricrescere…

Voto 5/5.

Julia Volta

“Il mio amore per Linton è come il fogliame dei boschi: il tempo lo trasformerà, ne sono sicura, come l’inverno trasforma le piante. Ma il mio amore per Heathcliff somiglia alle rocce nascoste ed immutabili; dà poca gioia apparente ma è necessario.Cime Tempestose, E. Bronte

Grandi classici: Mattia Pascal

È giunto il momento di presentare un altro caposaldo della letteratura, italiana questa volta, che avrei dovuto leggere alle superiori su caldo invito della mia insegnante di lettere. Da adolescente non mi attirava per niente: trovavo interessante la trama, ma leggendo un brano dal libro di testo, avevo cambiato subito idea. Eccomi qui dopo 10 anni almeno, a presentarvi Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello.

Bisogna ringraziare la Feltrinelli che con le sue offerte mi ha permesso di recuperare, acquistando i grandi classici lasciati indietro nel corso della mia breve vita. No, non è vero. Mi vergognavo a morte per il mio scarso bagaglio culturale nei confronti della letteratura, quindi sto avidamente recuperando :”)

La storia la sappiamo tutti. Mattia Pascal è un giovane scapestrato che vive con una moglie che lo detesta e una suocera che lo tormenta mattino e sera. Non che sia un santo, eh! Anzi, non è manco sta cima di intelligenza. Ma ha un gran cuore e come meglio può, cerca sempre di rendersi utile. Ma giusto per citare un comico “come si muove, pesta una cacca!”. La svolta più miracolosa avviene quando viene rinvenuto un cadavere, vittima di suicidio, e attribuiscono a lui la sua identità. Mattia risulta morto e apparentemente libero. Inizia così la sua avventura per costruire la sua nuova identità.

Un romanzo dall’ironia pungente, che sicuramente strappa un sorriso, ma spinge anche riflettere. Il povero Mattia è la macchietta di se stesso: la vita sembra porgergli la carota e una bastonata in continuazione. Quando pensi che finalmente abbia una possibilità di ricominciare da capo, sotto falso nome, scopri che ciò non gli è possibile perché di fatto Adriano Meis non esiste. È frutto del desiderio dello stesso Mattia, che si sente meglio nel vestire i panni di un uomo così dabbene, senza strabismo e sciatteria, ma anche il sogno di una povera Adriana che forse si aspettava un cavaliere valoroso, magari in groppa a un nobile destriero, in grado di salvarla dalle angherie di un parente poco raccomandabile. Ma il sig. Pascal ci è già passato: se una cosa non va bene, meglio troncarla. Così muore due volte, per ritornare nel suo paese di origine e scrivere la sua storia sotto forma di leggenda: l’uomo che morì tre volte, ma forse non ha vissuto mezza vita.

Ciò che mi piace nella narrazione di Pirandello, è che i suoi protagonisti sembrano rompere le barriere convenzionali e danno l’impressione di uscire fuori dalle pagine stesse. I suoi libri, con vicende uniche piene di domande esistenziali, sembrano donare maggior vita ai personaggi che li compongono, come se se la prendessero con lo stesso autore che li ha creati. Insomma, uno scrittore assolutamente da inserire nella propria libreria.

Voto 5/5.

“Di quante cose sostanziali, minutissime, inimmaginabili ha bisogno la nostra invenzione per ridiventare quella stessa realtà da cui fu tratta, di quante fila che la riallaccino nel complicatissimo intrico della vita, fila che noi abbiamo recise per farla diventare una cosa a sé!” Il fu Mattia Pascal, L. Pirandello

Grandi classici: Il Buio Oltre la Siepe

Per quanto ami leggere da una vita, mi sono resa conto che sono molto carente per quanto riguarda i grandi classici della letteratura, quelli che hanno fatto un successo strepitoso che perdura nel tempo. Molti di questi autori sono studiati anche nelle scuole italiane, ma devo ammettere che finché ero una studentessa, non ero in grado di apprezzarne la qualità. Forse, essendo alcuni titoli imposti, li trovavo noiosi a prescindere.

Ad ogni modo, Il Buio Oltre la Siepe di Harper Lee è un recente acquisto, spinta dalla curiosità, dato che per anni l’ho ignorato ingiustamente insieme ad altri autori. Per chi non lo conoscesse, la storia è ambientata a Maycomb, una cittadina del Sud degli Stati Uniti, dove vivono la piccola Scout, suo fratello Jem e suo padre Atticus insieme alla domestica Calpurnia. Atticus è un avvocato onesto che viene incaricato della difesa d’ufficio di un afroamericano accusato di violenza carnale. La vicenda, che costituisce la parte più celebre del romanzo, viene raccontata dal punto di vista della figlia.

Che dire? Vi aspetterete che ora inizi a tessere le lodi di questo libro. E invece, no! Mi spiego: quando ho iniziato questa lettura ero carica di aspettative, perché per quanto non l’avessi mai preso in considerazione, è cosa risaputa che abbia riscosso uno strepitoso successo fin dal premio Pulitzer del 1960, dato che tocca temi importanti e sempre attuali come il razzismo, l’ingiustizia, l’ignoranza,..). Sinceramente sono rimasta parecchio delusa, e vi spiego il motivo. Per gran parte del romanzo viviamo le esperienze dei figli di Atticus, attraverso noiosissimi intrecci che non portano da nessuna parte. Ogni volta che l’autrice si apprestava a raccontare un altro episodio della loro vita, mi chiedevo dove volesse andare a parare. Invece non succede nulla fino a quando non si arriva a 2/3 della storia. Fino ad allora dovrete sorbirvi dettagli minuziosi su come passavano le giornate Scout e Jem, fra scuola, giochi, dispetti, dialoghi con vicini di casa…e per inciso, quella bambina l’ho trovata semplicemente maleducata e antipatica. La nota accattivante iniziale è data solo dal mistero della casa dei Radley, nella quale si dice viva nascosto il sig. Arthur/Boo ormai da molti anni. Il processo al giovane afroamericano che ha reso celebre il libro, diventa così un avvenimento marginale rispetto a tutto il resto. Fra l’altro trattato sempre concentrando l’attenzione su Scout invece che sulla vicenda in sé. Quindi si ha come l’impressione che avvenga tutto troppo in fretta per riuscire a realizzarlo. Una scelta stilistica che ho trovato ingiusta: in fin dei conti la prima parte del romanzo poteva essere riassunta in pochi capitoli, a favore di argomenti ben più importanti. Mi sarebbe piaciuto un approfondimento sulla vita degli afroamericani in quel contesto, per esempio, magari concentrandosi su Tom e la sua famiglia. Che fine hanno fatto poi i numerosi Ewell?

La cosa incomprensibile, per altro, è il riassunto in quarta pagina che parla solo della difesa di Atticus nei confronti di Tom Robinson, spoilerando che muore nonostante sia innocente. Okay, il libro è famoso per questo, ma è solo una minima parte rispetto al logorroico contorno costruito dalla Lee. Per me è stato come dover apprezzare un quadro piccolissimo, ma significativo ed emozionante all’interno di una cornice imponente scialba e insignificante…Voto 2.5/5.

Grazie per la lettura 🙂

Julia Volta

“C’è qualcosa nel nostro mondo che fa perdere la testa alla gente: non riescono ad essere giusti neanche quando lo vogliono.” Il Buio Oltre la Siepe, H. Lee