La Gabbia D’Oro – S. Ebadi

È da qualche settimana che ho iniziato una Book Challenge seguendo un gruppo Facebook, una sorta di sfida di lettura per uscire dalla propria comfort zone e sperimentare autori provenienti da altre culture.

Per chi volesse saperne di più, vi invito ad iscrivervi al gruppo dedicato, anche se è da un po’ che penso di dedicare un articolo all’argomento.

Tornando alla mia lettura, una delle indicazioni diceva di leggere un autore iraniano di nascita e ho scelto così l’avvocatessa pacifista Shirin Ebadi, vincitrice del premio Nobel nel 2003 e autrice di diversi libri, fra cui La Gabbia D’Oro.

In questo romanzo biografico l’autrice descrive con semplicità ed estrema chiarezza l’intricata storia politica iraniana del XX secolo, intrecciandola con le vicende della famiglia della sua migliore amica Parì. La stessa, infatti, ha tre fratelli che hanno deciso di dedicare la vita a tre differenti fazioni politiche, in continua lotta fra loro: il nazionalismo dello Shah, il socialismo e l’estremismo religioso di Khomeini.

I tumulti dello Stato si ripercuotono inevitabilmente sulle dinamiche famigliari, creando delle spaccature profonde che col tempo non riescono a sanarsi.

Il racconto di Ebadi, più che una mera descrizione della situazione politica del suo Paese, diventa una vera e propria denuncia sociale, una forma di protesta nei confronti di una classe politica estremamente ignorante, capace di reprimere nel sangue ogni minima opposizione e completamente sorda alle reali esigenze dei suoi cittadini.

Come afferma lei stessa, purtroppo è il petrolio che arricchisce l’Iran e non gli iraniani, riducendo così il loro potere per rovesciare una situazione insostenibile che spinge le persone a drastiche scelte: scappare dalla propria terra per sempre, adeguarsi oppure lottare sapendo che prima o poi il proprio nome entrerà a far parte della lunga lista delle vittime della Rivoluzione islamica, alle quali non viene concesso nemmeno un funerale.

Di questo libro ho apprezzato prima di tutto lo stile conciso, forse dovuto alla sua formazione giuridica, perché non ci sono lunghe digressioni politiche oppure elucubrazioni filosofiche: Ebadi racconta lucidamente e con estrema sintesi cosa avviene in Iran, comprese le contraddizioni delle sue leggi. Il suo stesso pensiero viene esposto soprattutto attraverso il dialogo con gli altri personaggi della storia, oppure riportando fatti che contraddicono chi è al potere.

Ho apprezzato tantissimo anche la sua capacità di autocritica: l’autrice in qualche modo si rende conto ad un certo punto di essere vittima di una sorta di ottusità ed egoismo quando si tratta di portare avanti le proprie battaglie, le stesse debolezze che ha sempre criticato negli altri.

Mi è dispiaciuto un po’, tuttavia, non trovare abbastanza informazioni che riguardano la sua storia personale: si apprende quasi per caso che ha avuto il Nobel per la Pace e le sue vicende fanno da contorno alla storia dell’amica Parì. Ma credo che ciò sia dovuto al fatto che l’argomento è stato ampiamente trattato in altri suoi libri, fra cui Finché non saremo liberi, pubblicato nel 2016.

In ogni caso, ne consiglio vivamente la lettura. Voto 4,5/5.

Per chi si stesse chiedendo che fine abbia fatto l’autrice, dovete sapere che dopo la pubblicazione del libro, avvenuta nel 2008, Ebadi è dovuta scappare a Londra in un esilio forzato, per evitare di essere arrestata e fare la fine di tutti gli altri oppositori.

Da lì, l’Iran ha comunque continuato a minacciarla, accusandola di frode fiscale per non aver pagato centinaia di migliaia di dollari in tasse derivanti dal premio Nobel.

Nonostante ciò, lei comunque afferma di voler tornare a Teheran un giorno.

«Nulla mi spaventa più, anche se minacciano di arrestarmi per evasione fiscale al mio rientro. Sostengono che debbo al governo 410 mila dollari in tasse arretrate per il Nobel: una fandonia visto che la legge fiscale iraniana stabilisce che i premi siano esentasse. Se trattano così una persona ad alto profilo come me, mi chiedo come si comportano di nascosto con uno studente o un cittadino qualunque» S. Ebadi

Agatha Raisin La giardiniera invasata – M. C. Beaton

Dopo un paio di letture che toccavano temi importanti, ho deciso di staccare un po’ buttandomi nel terzo volume della saga divertente di Agatha Raisin, la Miss Marple de’ noantri, ovvero La giardiniera invasata, scritta da M. C. Beaton.

Come per i precedenti, ogni caso inizia e finisce in un unico libro, ma per seguire le vicende della vita personale di Agatha, bisognerebbe procedere con ordine.

I primi due volumi infatti si intitolano La quiche letale e Il veterinario crudele, che ho già recensito.

La storia questa volta si apre con il ritorno di Agatha da una lunga vacanza solitaria, trascorsa in luoghi che mi hanno suscitato tanta invidia, ma che nel suo caso l’hanno fatta sentire sola e triste. Tornata a Carsely, infatti, non vede l’ora di rivedere i volti amichevoli dei suoi abitanti, compresa l’amica signora Bloxby e l’affascinante vicino di casa James.

Salvo poi scoprire con orrore che quest’ultimo ha iniziato a frequentare un nuovo acquisto del villaggio, Mary Fortune, una donna bellissima, alta, bionda, magra ed esperta nel giardinaggio. In poche parole, tutto ciò che Agatha non è e vorrebbe essere.

Ovviamente farà di tutto per tenere sotto osservazione quella relazione, compreso iscriversi alla società orticola locale, pur non avendo mai piantato un seme. Ma non passa molto tempo che iniziano a succedere cose strane: i giardini più belli vengono vandalizzati e i pesciolini dello stagno di Bernard Scott vengono persino avvelenati.

Un altro mistero su cui indagare nel terzo luogo con il più alto tasso di criminalità al mondo, subito dopo Stockport e Cabot Cove!

Per quanto riguarda la trama, a parer mio è riuscita meglio rispetto al volume precedente, anche se comunque stiamo sempre parlando di uno sviluppo scontato dalle dinamiche surreali; intuire chi sia il colpevole, infatti, non è poi così difficile, persino per una come me che generalmente non legge tanti gialli e thriller.

Ciò che mi attira di questa saga è la protagonista, che trovo divertente nel suo essere così impacciata: mi sembra più reale, autentica e non costruita ad hoc come i personaggi di altri libri. Fra l’altro come modi di fare ricorda molto una mia vecchia amica e forse è per questo che mi suscita dell’affetto.

Di contro, sto cominciando a non sopportare altri elementi della storia, ovvero:

  • Lo stoccafisso James, davvero antipatico se si considera che tratta Agatha a pesci in faccia solo perché non risponde ai suoi canoni di donna ideale. Non appena sospetta che lei nutre per lui dell’interesse amoroso, scappa senza dare spiegazioni, come un ragazzino delle scuole medie.
  • Il poliziotto Bill Wong che onestamente non mi sembra questa cima di intelligenza. Oltretutto, hai di fronte una donna che ha già risolto due casi di omicidio (quando la stessa polizia non sapeva che pesci pigliare) e, invece di assumerla, ti mostri arrabbiato perché ficca il naso dove non dovrebbe.

Per concludere, una nota di merito va alla traduzione del titolo, per il simpatico gioco di parole.

Voto 4/5.

PS: Grazie a questo volume mi sono ricordata che dovrei prendermi più cura del mio giardino, anche se mi sento più affine al modus operandi di Agatha, piuttosto che a quello di James.

I ragazzi hanno grandi sogni – A. Ehsani

Tre anni fa mi era capitato fra le mani un libro dal titolo curioso, ovvero Stanotte guardiamo le stelle, un’autobiografia di Alì Ehsani, uomo di origine afghane che aveva compiuto un lungo e insidioso viaggio per raggiungere l’Italia e scappare dalla guerra.

Una storia toccante, soprattutto perché la sua fuga è iniziata quando era solo un bambino di otto anni, rimasto orfano dopo che un bombardamento sulla sua casa aveva ucciso i genitori e costretto a scappare insieme al fratello maggiore.

Anche se sappiamo fin da subito che alla fine è riuscito nel suo intento, ciò che ha dovuto passare si può solo immaginare; Alì racconta in modo lucido e dettagliato la paura di doversi nascondere, la fame, i tentativi di ricominciare una nuova vita e la determinazione a raggiungere l’Europa, non senza rischi.

Il libro si conclude con il suo arrivo in Italia in modo clandestino, che rappresenta una vittoria dal sapore amaro e persino il giovanissimo Alì si rende conto che ha appena attraversato la punta dell’iceberg, perché adesso inizia una nuova fase della sua vita, anch’essa complicata, ricca di prove e di sofferenze.

E difatti, il secondo volume intitolato I ragazzi hanno grandi sogni parla del suo percorso di integrazione nel nostro Paese, che non è stato per nulla facile, come si può immaginare: Alì è sicuramente arrivato a destinazione, ma la paura di essere espatriato in un luogo dove ormai non ha più niente e nessuno continuerà a fargli compagnia per anni.

Senza contare che non conosce la lingua, ha perso molti anni di scuola ed è costretto a vivere in un centro di accoglienza, dove riceve tutte le cure necessarie per il sostentamento, ma soffre terribilmente di solitudine, come tutti gli altri ragazzi nella sua stessa situazione.

Ciò che mi ha colpito è la sua incredibile tenacia che l’ha spinto a fare enormi sacrifici per raggiungere la posizione che ha oggi; una sorta di rivalsa nei confronti di quella famiglia che ormai ha perso, ma sente sempre vicina.

Per quanto la sua storia sia commovente come la parte precedente, questa volta lo stile di scrittura non mi ha fatto impazzire per tre ragioni:

  • Prima di tutto perché narra al tempo presente ed è una cosa che per gusto personale non apprezzo. Preferisco il buon vecchio passato remoto, anche se alcuni lo trovano pesante.
  • In alcuni frangenti non è molto chiara la collocazione temporale degli eventi, perché a quanto ho capito i capitoli procedono un po’ per argomenti, non tanto per ordine cronologico. Oltre a ciò il ritmo è continuamente spezzato da flashback che descrivono meglio il suo rapporto con il padre e gli insegnamenti tratti dai genitori.
  • Ammetto che ho un po’ dubitato dell’autenticità di qualche episodio della storia, che forse è stato modificato perché risultasse più toccante per il lettore.

Alla fine, rimane comunque un libro che vale la pena leggere, perché poche volte ci si chiede cosa devono affrontare gli immigrati che sostano per anni nei centri di accoglienza, costretti a vivere in un limbo di incertezza con la paura di tornare in un luogo senza speranze dal quale sono scappati.

Voto 3/5.

“Mi chiede se ho qualche parente, qualche amico di famiglia, insomma è chiaro che anche solo la metà di quello che le ho raccontato le risulta insopportabile. E che forse, come milioni di italiani, non ha la minima idea di quali storie si nascondano in noi che arriviamo da lontano. Non è colpa sua: semplicemente i due mondi è difficile che si incrocino.” I ragazzi hanno grandi sogni, A. Ehsani

Il gatto che insegnava a essere felici – R. Wells

Comincio subito col dire che questo libro mi serve da monito: devo smetterla di comprare compulsivamente quando vedo lo sconto 2 x 9,90€, perché tante volte pur di scegliere il secondo titolo, comincio ad utilizzare criteri di scrematura ridicoli.

In questo caso, ciò che ha attirato la mia attenzione è stato il gatto sulla copertina, perché io amo questo animale e mi scioglie più del cane. LO AMMETTO!!!

“Ma com’è che come immagine di copertina hai un cane?”

Ecco, fra i tre (due gatti e un cane), lei è stata l’unica che si è prestata a farsi fotografare, ben sapendo di essere bella e fotogenica. Gli altri due al massimo annusano il cellulare oppure si voltano di spalle con fare annoiato.

Dunque, adesso capite perché con gioia infantile io abbia deciso di cimentarmi in una lettura dal titolo “Il gatto che insegnava a essere felici” (di Rachel Wells)! Ma è stato un grosso errore e fra poco vi spiego perché…

Il libro fa parte di una serie ed è tutta incentrata sul micio Alfie, un certosino che di mestiere fa il portinaio di Edgar Road, perché è incredibilmente impiccione, con la scusa di voler aiutare le persone ad essere felici.

Dopo che ha aiutato Claire e Jonathan a sposarsi, ora si presenta una nuova avventura carica di mistero: nella via è arrivata una famiglia molto riservata e asociale, che fa di tutto per tenere tutti alla larga, destando non pochi sospetti sui loro affari.

Persino la loro gatta Palla di Neve si mostra scontrosa e diffidente, ma Alfie è colpito dalla sua bellezza e non riesce a fare a meno di importunarla.

Le premesse non erano male e la scelta del protagonista era originale, ma… Niente! Per me è un libro tremendo, scritto male e fin troppo lungo. Giunta alla 328esima pagina, dopo che mi è venuto il diabete a furia di leggere frasi melense da biglietti delle elementari, ho capito che l’autrice è una pancina e del mondo dei gatti sa ben poco.

Per prima cosa ci tengo a ribadire che i romanzi leggeri, quelli con gli happy ending scontatissimi, generalmente non mi dispiacciono perché mi mettono di buon umore, ma qui a parer mio siamo ben oltre la decenza. Fra le chiusure di capitolo tutte uguali del tenore “Che bello essere circondati da tanto amore ecc.” (originalità, scansati proprio), ho notato però un messaggio che secondo me è pericoloso e assurdo da sostenere nel 2023, ovvero che la VERA felicità si ottiene solo con figli. Non è un caso che tutte le scene della Mulino Bianco coinvolgono solo persone che hanno almeno due bambini o comunque desiderano averne.

**Attenzione, qui parte l’anticipazione sul finale**

Il culmine di questo pensiero è stata la frase infelice di Alfie, dopo la scoperta della gravidanza di Claire: “Saremmo diventati una vera e propria famiglia!“. Un concetto che viene ribadito più volte, anche in modo sottinteso. Quindi, sappiate che se non avete figli, non siete davvero una famiglia…

Come se non bastasse, l’autrice ha un livello di conoscenza dei gatti che si ferma al cartone animato di Tom&Jerry, perché ad Alfie piacciono tutte le cose che generalmente i gatti detestano e non sono io la sig.ra Nessuno a dirlo, ma i numerosi articoli scritti da esperti sul comportamento di questo meraviglioso felino, che la Wells evidentemente si è dimenticata di guardare.

Per esempio, i gatti non sopportano il caos e per questo tendono a trovare un posto sicuro quando la loro casa è particolarmente affollata. La loro natura è predatoria, molto curiosa, ma anche piuttosto diffidente e difficilmente si farebbero avvicinare da qualcuno. Quando soffrono poi, diventano tremendi!

Inoltre, non sopportano essere maneggiati e toccati di continuo, per questo molto spesso tollerano poco i bambini, perché essendo piccoli ancora non capiscono i loro limiti. Una grossa differenza rispetto a molte razze di cani, che hanno una pazienza infinita e amano giocare con gli umani a qualsiasi età.

Io comunque capisco che il libro doveva avere un tono leggero, quindi non è che si pretende un trattato sul comportamento dei felini, però mi è sembrata un’occasione sprecata, considerato il protagonista così insolito.

Penso che con questa serie mi fermerò qui. Addio, Alfie… Preferisco i miei gatti.

Voto 1/5.

Agatha Raisin Il Veterinario crudele – M. C. Beaton

Dovete sapere che per me risulta abbastanza difficile concentrarmi in questi giorni, dato che praticamente continuiamo a mangiare ininterrottamente invitati sempre da qualcuno, facendomi perdere la cognizione del tempo.

Nel caso non si fosse capito, io e mio marito veniamo da due famiglie numerose del profondo sud; il che significa grandi abbuffate quando ci si trova insieme.

Tutto è cominciato il 23 dicembre (in occasione della Vigilia della Vigilia) ed è ancora in corso, perché questi giorni che fanno da ponte fra Santo Stefano e Capodanno si vivono come una sorta di preparazione olimpica per ciò che ci attende alla fine dell’anno, il Gran finale, la madre di tutte le abbuffate del 2022, l’ultimo atto di una tragedia infinita!

Il bilancio attuale è:

  • Bilancia nascosta;
  • Perdita di cognizione del tempo e dello spazio;
  • Incapacità di concentrarsi su argomenti troppo complicati: motivo per cui si scatenano i peggio dibattiti proprio in prossimità del Capodanno.

In un clima del genere potevo permettermi solo una lettura leggera e divertente, ma quale se non l’amata serie appena scoperta di Agatha Raisin firmata M. C. Beaton? Questa volta con il titolo Il Veterinario Crudele!

Se vi siete persi la recensione del primo volume, la trovate cliccando qui. In sostanza, Agatha è una signora di mezza età che, dopo una carriera brillante come PR, decide di andare in pensione prima del tempo e comprarsi una casetta nella campagna inglese.

Il suo arrivo porta fin da subito uno scossone, perché intorno a lei succede sempre un guaio e questa volta si tratta dell’omicidio del nuovo veterinario Paul Bladen, avvenuto poco tempo dopo essere uscito con lei.

Agatha decide di indagare per scoprire chi è il colpevole, più che altro per avere una scusa per trascorrere del tempo con l’affascinante vicino di casa James, il quale ogni volta che fiuta la sua volontà di flirtare, sparisce senza pietà.

Anche in questo caso non stiamo parlando di un giallo ricco di misteri, perché in fin dei conti non è poi così difficile capire chi sia il reale colpevole già a circa metà della storia.

La mia impressione è che questa volta l’autrice si sia voluta concentrare sulla componente sentimentale della vicenda, mostrando un lato più vulnerabile e sensibile della stessa protagonista, senza mai diventare troppo stucchevole; difatti, continua a rimanere la narrazione ironica, con eventi al limite dell’assurdo ed episodi divertenti.

In aggiunta, lo stile della narrazione rende sempre la storia tanto scorrevole da riuscire a finirla in appena una giornata, mettendo anche di buon umore (almeno, per me è così).

Una domanda che potrebbe sorgere spontanea è se sia il caso si leggere i volumi in ordine di pubblicazione per comprendere meglio la storia. A parer mio la risposta è : è chiaro che le vicende sentimentali di Agatha fanno da sfondo a tutta la serie, ma ogni libro inizia e finisce un caso di omicidio, senza lasciare interrogativi e in modo molto lineare.

Ad ogni modo, per chi desidera un giallo che non si prende troppo sul serio, lo consiglio sicuramente.

Voto 4/5.

Auguri di buoni digestivi per le feste!

Julia

Il giardino dalle mille voci – E. Arenz ed esperienza Club degli Editori

Con la lettura di oggi colgo l’occasione per aggiornarvi sulla mia esperienza come socia del Club degli Editori, al quale ho dedicato un articolo dettagliato che potete trovare qui.

Ormai è da più di un anno che ne faccio parte e penso di poter fare un bilancio sia in positivo, sia in negativo.

Dunque, ho letto spesso critiche sul Club degli Editori, soprattutto in relazione alla presunta difficoltà di cancellarsi come socio oppure rifiutare il libro del mese; in realtà, questi credo siano aspetti superati perché, come spiego nello stesso articolo di cui sopra, esistono diverse procedure per togliersi dai vincoli previsti per i soci.

Gli elementi che personalmente non apprezzo sono principalmente due:

  • Il catalogo che si presenta come ricco di volumi (sono 150 proposte circa ogni mese) ha sempre gli stessi titoli che girano e rigirano, soprattutto quelli che per il momento vanno per la maggiore, i classici tormentoni che potete trovare in ogni gruppo di lettori. Esatto, parlo proprio della saga dei Florio oppure dei romanzi della Pérrin, giusto per fare un paio di esempi. Insomma, a ben vedere, la scelta non è poi così variegata.
  • Il libro del mese è quasi sempre un thriller, cosa che non torna utile per i lettori che, come me, non hanno questo genere fra i propri preferiti. Questo mi spinge a dover controllare costantemente il sito per rifiutare il titolo del momento ed evitare di riceverlo nonostante non abbia alcun interesse a leggerlo (mi è successo almeno un paio di volte).

Di contro, però, ho fatto anche degli ottimi affari come acquistare best seller con uno sconto minimo del 20% oppure tris di libri pagando il 75% in meno!

Il giardino dalle mille voci di Ewald Arenz appartiene proprio a quest’ultima categoria, un romanzo che qui in Italia è quasi del tutto sconosciuto – su Ibs non esistono recensioni e su Amazon non raggiungono nemmeno la trentina – mentre in Germania ha avuto successo fin dal giorno della sua uscita.

Ecco qualche cenno sulla trama: Sally è una diciassettenne che scappa dalla clinica dove era rinchiusa per curare i suoi disturbi alimentari, perché è stufa delle persone che non la capiscono e dettano solo delle regole che lei deve seguire. Nella sua fuga raggiunge un paese di campagna con pochi abitanti e tanta natura, dove sembra che il tempo si sia fermato. Qui ad ospitarla è la taciturna Liss, che non le fa domande personali, ma la coinvolge a poco a poco nel lavoro dei campi, come una sorta di terapia benefica che però riguarda entrambe, perché anche questa donna nasconde dei segreti che la tormentano.

Nonostante, il libro non contenga un gran numero di pagine (superano di poco le duecento), si presenta comunque come una lettura impegnativa perché si concentra molto sull’analisi introspettiva delle protagoniste: da una parte abbiamo una ragazza arrabbiata con il mondo, sempre sulla difensiva, che desidera solo essere lasciata in pace e sentirsi libera.

Dall’altra c’è Liss, una donna che si sente appassire nella sua enorme fattoria, dove cerca di tenere a bada la frustrazione attraverso il piacere che trae dal lavoro nei campi, con i suoi ritmi regolari e la soddisfazione da ciò che produce.

Senza anticipare il finale, fra le due nasce un’amicizia profonda che le spinge a trovare forza l’una nell’altra per germogliare come i fiori dello stesso giardino che le circonda. Il simbolo di questo tentativo di riscatto è rappresentato dal giardino delle pere, che Liss inizialmente tiene gelosamente nascosto, anche perché è legato a sensazioni più negative che positive, per poi diventare una piacevole oasi di pace per entrambe.

Nel corso della storia l’autore accosta spesso le immagini della natura con la lotta interiore delle donne, soprattutto per quanto riguarda Liss, che ha un animo decisamente più tormentato, regalando al lettore un’immagine viva e poetica di ogni sentimento. Questo è uno degli aspetti che più mi sono piaciuti.

Invece, non ho del tutto apprezzato la struttura narrativa: le vicende del presente vengono a volte interrotte da flashback che riguardano il passato di una delle due, ma ci vuole qualche riga di lettura prima di riuscire a orientarsi e capire di chi si sta effettivamente parlando. Senza contare che in quei frangenti i dialoghi vengono riportati senza punteggiatura, rendendoli solo più irritanti, anche se capisco il tentativo di farli sembrare più simili a dei ricordi.

**Da qui in poi possono esserci anticipazioni sul finale**

Il finale della storia non mi è sembrato poi così scontato: non ci sono stravolgimenti nella vita delle due donne a livello fisico, perché Liss alla fine non fugge dalla fattoria, non incontra il figlio Peter, non affronta di petto il padre-padrone ecc. Così come Sally alla fine dovrà comunque tornare a casa ad adempiere ai suoi doveri, fra cui finire la scuola.

L’happy ending, se così si può definire, è tutto concentrato nell’animo delle protagoniste che riescono a vincere sui sentimenti negativi che le imprigionavano: la vera libertà non è quella fisica, ma quella che si ottiene a livello mentale, decidere per sé stessi ciò che rende davvero felici, senza doversi preoccupare di accontentare continuamente qualcuno, con il risultato di ritrovarsi alle soglie della mezza età pieni di rimpianti.

Un messaggio potente che si avverte come un’eco in tutto il romanzo per poi esplodere sul finale.

Attenzione, però, perché questo non significa fare tutto ciò che si vuole, ma trovare una sorta di equilibrio personale. Non a caso, Liss e Sally rappresentano due estremi di un’unica vita, due punti fondamentali nell’esistenza di ciascuna persona: la voglia di “spaccare il mondo” che si ha da ragazzini, in contrapposizione al resoconto che si fa in età più matura.

Non si può vivere per sempre in camper, senza responsabilità e pensieri, così come non si può decidere dall’oggi al domani di trasferirsi in una fattoria sperduta, facendo finta che il resto del mondo non esista più.

In sostanza, libertà non vuol dire fuggire, ma scegliere come affrontare ogni esperienza senza rinunciare alla propria felicità.

Voto 4/5.

Julia

“Quella donna non doveva pensare che lei adesso sarebbe tornata indietro. Non era così debole. Il malleolo bruciava ad ogni pedalata e questo era un bene. Pedalò più in fretta e più forte, si alzò e proseguì stando in piedi. Il vento le asciugò gli occhi. Quando arrivò all’inizio del bosco le bruciavano così tanto i polmoni che neanche più sentiva il malleolo, e riuscì giusto a vedere dove Liss sparì fra gli alberi.” Il giardino dalle mille voci, E. Arenz

Agatha Raisin La quiche letale – M. C. Beaton

Quest’estate, prima di partire per le vacanze, mi sono piazzata davanti alla mia libreria per capire quale storia mi sarei potuta portare dietro, ovviamente lontana dallo sguardo indiscreto di Guerra e Pace che ancora aspetta di essere finito.

Dunque, per me la libreria funziona un po’ come l’armadio dei vestiti: ho tanta roba, ma non so mai quale tirare fuori.

Le caratteristiche che cercavo erano le seguenti:

  • Qualcosa di leggero, poco impegnativo;
  • Un po’ di humor che non guasta;
  • Copertina interessante.

La scelta è ricaduta su Agatha Raisin La quiche letale di M. C. Beaton, che persino dal titolo fa presagire il tipo di storia che andreste a trovare.

Già tempo fa mi ero scontrata con lo humor inglese grazie a La Sovrana Lettrice di Bennet che, a dispetto delle recensioni, avevo trovato tutt’altro che divertente.

Eppure, questa volta mi sono dovuta ricredere!

Insomma, la protagonista è Agatha, una cinquantenne londinese che ha avuto una carriera brillante come PR, ma ora ha deciso di vendere tutto per trasferirsi nella campagna dei Cotsworlds.

Avete presente quelle casettine carine che si vedono nelle cartoline o nei film tipo L’amore non va in vacanza? Quelle costruite in pietra con giardino fiorito, caminetto perennemente acceso e vicini di casa che ti sorridono sempre.

Ecco, anche Agatha si era illusa di una situazione del genere, salvo poi scoprire che i vicini sono fintamente cortesi e che il suo giardino fa pena perché non viene curato.

Lei non si arrende e pur di entrare nelle grazie dei 4 gatti che vivono in zona, decide di vincere (partecipare non basta) una gara di quiche, nonostante non abbia mai cucinato un uovo al tegamino.

Come se non bastasse, uno dei giudici ci resta secco dopo aver mangiato proprio il suo piatto!

Ovviamente i primi sospetti ricadono su di lei e la sua principale preoccupazione è quella di dover rivelare che la quiche in realtà non l’ha cucinata lei, ma era andata a comprarla in città.

Iniziano così le sue indagini per scoprire chi abbia davvero ucciso il giudice della competizione, attraverso una serie di malintesi e l’incontro con casi umani.

Anche se i colpi di scena non sono poi così tanti, questo libro si fa leggere con piacere perché è davvero divertente.

Agatha è molto lontana dai detective che siamo abituati a conoscere, con la loro eleganza ed incredibile arguzia nello sgusciare fra una prova e l’altra senza alzare un polverone.

Lei no: è scontrosa, diretta, non le manda a dire, se la prende con il mondo intero e ovunque vada combina guai.

Io l’ho trovata semplicemente fantastica e più volte mi ha strappato una risata.

Una lettura consigliata per chi sta cercando un romanzo leggero, divertente e che contenga un pizzico di mistero in stile signora Fletcher.

Fra l’altro, ho scoperto che è il primo di una lunghissima serie che conta una trentina di libri e non sono neanche gli unici scritti dall’autrice.

Difatti, la signora Marion Chesney (1936 – 2019) ha pubblicato decine e decine di libri, alcuni utilizzando il suo vero nome, altri dietro numerosi pseudonimi, come M. C. Beaton, Ann Fairfax, Jennie TremaineHelen CramptonCharlotte Ward, e Sarah Chester.

Una mente a dir poco geniale!

Voto 5/5.

Julia

La ragazza interrotta – S. Kaysen

Per molte persone il nome Susanna Kaysen potrebbe non dire nulla, ma a sentir La ragazza interrotta salterebbe subito alla mente il film dal titolo molto simile del 1999, diretto da James Mangold.

E difatti, il lungometraggio Ragazze interrotte trae proprio ispirazione da questo diario autobiografico, dove l’autrice racconta la sua esperienza in manicomio, vissuta alla fine degli anni Sessanta.

Questo libro ha fatto parte della mia wishlist per diversi mesi, prima di decidermi a comprarlo e leggerlo. Nel frattempo avrò visto il film almeno un paio di volte: una storia toccante che lascia il segno, soprattutto per chi da quell’incubo non è più uscito.

Quando ho iniziato a leggere il diario ero sicuramente carica di aspettative: mi aspettavo un racconto lineare, dove forse si entrava più nei dettagli nelle storie che riguardavano le altre pazienti. Mi sarebbe piaciuto sapere anche che fine avessero fatto tutte.

Ad essere sincera, sono rimasta un po’ delusa in generale, perché l’ho trovato confusionario nella narrazione. In aggiunta, mi sono resa conto che per il film si è dato ampio spazio all’interpretazione, cercando di mettere in successione eventi raccontati a random.

Infatti il libro è così strutturato: una serie di brevi episodi raccontati in prima persona, intervallati da fotocopie di referti medici originali che riguardano Susanna stessa. Non ci sono date ad inizio capitolo, perciò non si riesce a collocare gli eventi all’interno di una linea temporale. L’ordine di presentazione non c’entra nulla, anche perché prima si parla della morte di un personaggio, il quale ricompare alcuni capitoli dopo.

Nella parte finale ci sono una serie di considerazioni dell’autrice riguardo alla sua patologia, da dove ha tratto il titolo del libro e giusto un paio di episodi per raccontare che fine abbiano fatto Lisa e Georgina.

Insomma, mi sarei aspettata un po’ più cura da questo punto di vista.

Ricordo che anche Alda Merini ne L’Altra Verità, oppure Chamed in Mi si è fermato il cuore, comunque hanno cercato di dare un ordine agli eventi, una sorta di orientamento per il lettore, seppur con stili completamente differenti.

Invece, la mia impressione è che Kaysen abbia voluto trascrivere un diario per sé stessa, una sorta di sfogo personale terapeutico per staccarsi definitivamente da quella esperienza in ospedale psichiatrico.

La sua narrazione rimane comunque lucida nella descrizione di atteggiamenti bizzarri che la caratterizzano, anche se a tratti sembra che lei stessa voglia negare di avere dei disturbi psichiatrici; invero, mostra delle perplessità riguardo al trattamento a lei riservato o all’interpretazione dei suoi comportamenti, così come alle condizioni che determinano la diagnosi stessa.

Celebre infatti è la sua osservazione riguardo alla promiscuità femminile, messa a confronto con quella maschile: un giudizio che spinge a riflettere, peraltro riportato anche nel film.

Insomma, lo consiglio? Sì, ma più che altro per le interessanti riflessioni riguardo agli stessi disturbi.

Ps: nel film ci sono aspetti diversissimi rispetto al libro, primo fra tutti le sembianze dei personaggi. L’infermiera Valerie nella realtà era bionda con carnagione chiara, mentre Lisa mora. Inoltre, alcuni episodi sembrano inventati di sana pianta, come la fuga di Susanna e Lisa, che raggiungono la casa di Daisy oppure la diagnosi di altre pazienti.

I matti sono un po’ come i calciatori scelti per battere il rigore. Spesso è pazza l’intera famiglia, ma poiché non può entrare tutta in ospedale, si sceglie una sola persona come pazza e la si interna. Poi, a seconda di come si sentono gli altri componenti, la si tiene dentro o la si risbatte fuori, per dimostrare qualcosa sulla salute mentale della famiglia stessa.La Ragazza Interrotta, S. Kaysen

Le sorelle Donguri – B. Yoshimoto

Quando ci sono periodi un po’ difficili e carichi di preoccupazioni, ognuno di noi cerca un modo per distrarsi: chi fa sport fino allo sfinimento, chi esce con amici e chi come me inizia a leggere NO STOP per riempire la testa di storie che non ci appartengono.

Settimane fa mi è capitato di passare in libreria e se c’è una cosa alla quale non riesco proprio a resistere sono quelle favolose offerte del tipo “Prendi 2 e paghi 9,90“.

Il problema è che molte volte scorrendo le copertine non trovo gran che di interessante, soprattutto quando afferro qualche volume e leggo la trama; quindi, in tempo zero mi allontano un po’ delusa.

L’ultima volta, invece, sono stata travolta dalla voglia di shopping e ho deciso di comprare qualcosa, fra cui Le sorelle Donguri di Banana Yoshimoto.

Premetto che all’inizio non mi entusiasmava l’idea di approcciarmi ancora a questa autrice: avevo letto Kitchen mesi fa e, a dispetto delle recensioni entusiaste presenti nel web, non mi aveva fatto impazzire. Cliccando qui, potete trovare la recensione.

Insomma, ho voluto fare un altro tentativo e sono rimasta molto contenta. Certo, è evidente che Le sorelle Donguri è un’opera più matura rispetto alla precedente, dove ritorna comunque il tema della morte (mamma, che ansia!) con conseguente lutto, ma lo fa in maniera così delicata, da diventare estremamente poetico.

In questo romanzo le protagoniste sono Donko e Guriko, due sorelle diversissime che dopo una serie di lutti che iniziano con la morte dei genitori in un incidente, possono contare solo l’una sull’altra. Decidono di aprire una sorta di sito di ascolto, dove la gente invia mail per sfogarsi sulla qualunque e loro rispondono dando conforto.

Un giorno Guriko sogna Mugi, il suo primissimo amore che non vede da anni, e decide di andare a cercarlo, trovando il coraggio di uscire dalla sua clausura: Guriko, infatti, è una ragazza molto introversa e di rado si concede svaghi, al contrario della sorella.

La storia ha un ritmo molto lento, senza particolari colpi di scena e potrebbe risultare noioso. Il grosso della narrazione riguarda l’analisi introspettiva di Guriko, che ricorda il suo percorso travagliato, il senso di solitudine che l’ha portata ad ammalarsi e il desiderio di cambiare pur non avendone il coraggio.

La storia d’amore fra lei e Mugi, così surreale e delicata, è stata una delle più toccanti che abbia mai letto. Secondo me era poesia pura, così come tutte le similitudini e metafore utilizzate nell’intero romanzo, a metà fra la realtà e il sogno di Guriko.

Per i teneroni inside come me, che da fuori sembrano sempre dei T-rex nevrotici e arrabbiati, è il libro ideale che fa sognare e riflettere, lasciando comunque un po’ di amaro in bocca.

Attenzione: non è la classica storia d’amore! Basta, non dico altro…

Voto 5/5.

“Quando non si esce in casa per tanti giorni, nella nostra testa il mondo diventa a poco a poco più grande di quello reale. Senza che ce ne accorgiamo, le nostre fissazioni prendono il sopravvento. Allora si deve uscire per ristabilire le proporzioni – questo è quello che faccio sempre. Farsi da parte, recuperare le energie. O così o si finisce per soccombere. La minaccia non viene dall’esterno: è la nostra parte più intima che rischiamo di perdere di vista. E se questo accade, le persone intorno a noi percepiranno il nostro spaesamento e il loro atteggiamento nei nostri confronti cambierà.” Le sorelle Donguri, B. Yoshimoto

Addio, a domani – S. Efionayi

Diversi mesi fa mi ricordo che era stato pubblicato un post di recensione su un gruppo di lettori, dove si parlava del grande classico Il buio oltre la siepe di H. Lee, considerato da tutti uno dei pilastri fondamentali per quanto riguarda la denuncia al razzismo.

È anche vero che il racconto dell’autrice risale agli anni Cinquanta e Sessanta, un bel po’ di decenni fa: di conseguenza alcune persone hanno anche smesso di prenderlo in considerazione, come un utente che proprio sotto a quel post aveva commentato dicendo che ormai si trattava di un testo superato, appartenente ad un periodo storico troppo lontano per potersi immedesimare.

Il problema è che il razzismo ha solo mutato forma, ma rimane sempre presente, come un tarlo che consuma tutti gli strati sociali di una qualsiasi società che vuole considerarsi civile.

La testimonianza di Sabrina Efionayi non ha scuse per passare inosservata: lei è una ragazza con una storia struggente, cresciuta in mezzo a più mondi, senza mai riuscire ad indentificarsi pienamente in nessuno di questi. Da una parte c’è quello della famiglia biologica, con una mamma nigeriana costretta a prostituirsi, mentre il padre compaesano ha persino rifiutato di riconoscerla (il cognome le è stato dato da un caro amico).

Dall’altra abbiamo una famiglia napoletana che prende a cuore la situazione, a tal punto da acconsentire a crescere quella bambina come se fosse una figlia.

Sabrina non perde legami con nessuno e col tempo cerca la sua identità indagando ovunque, ma senza riuscire mai ad inserirsi: fra gli italiani è troppo scura come aspetto, fra gli africani è troppo bianca nel comportamento.

Ciò che ho letto nella sua biografia Addio, a domani è un costante tentativo di assecondare le aspettative altrui, chiudendo sé stessa in un’ostinata discrezione. Quando parla dice alle persone ciò che vogliono sentirsi dire, frasi studiate per non offendere la mamma biologica che la vorrebbe più in linea con il carattere estroverso africano o per non alimentare la paura di perderla da parte della madre adottiva Antonietta.

Ma Sabrina ha tanto da dare. È una ragazza molto intelligente e la sua capacità di scrittura la si evince già da queste poche pagine, dove cerca di raccontare la sua storia e quella della madre Gladys dall’esterno, per poi terminare con una considerazione riguardo al razzismo di oggi.

Ora, pensi che Il buio oltre la siepe sia ormai superato perché al giorno d’oggi non si fanno più processi a persone solo per il colore della pelle?

Beh, allora leggi la testimonianza di questa ragazza e poi ne riparliamo.

Voto 5/5!

“Get up, Gladys. You’re a woman. You’re a black woman in a country where we are nothing. In a country like this, in a world like this, you have to be a woman twice. All you have to do as a woman, all the pain and all the love, you have to fight for it, twice. Cause you’re a black woman.” Addio, a domani di S. Efionayi