I ragazzi hanno grandi sogni – A. Ehsani

Tre anni fa mi era capitato fra le mani un libro dal titolo curioso, ovvero Stanotte guardiamo le stelle, un’autobiografia di Alì Ehsani, uomo di origine afghane che aveva compiuto un lungo e insidioso viaggio per raggiungere l’Italia e scappare dalla guerra.

Una storia toccante, soprattutto perché la sua fuga è iniziata quando era solo un bambino di otto anni, rimasto orfano dopo che un bombardamento sulla sua casa aveva ucciso i genitori e costretto a scappare insieme al fratello maggiore.

Anche se sappiamo fin da subito che alla fine è riuscito nel suo intento, ciò che ha dovuto passare si può solo immaginare; Alì racconta in modo lucido e dettagliato la paura di doversi nascondere, la fame, i tentativi di ricominciare una nuova vita e la determinazione a raggiungere l’Europa, non senza rischi.

Il libro si conclude con il suo arrivo in Italia in modo clandestino, che rappresenta una vittoria dal sapore amaro e persino il giovanissimo Alì si rende conto che ha appena attraversato la punta dell’iceberg, perché adesso inizia una nuova fase della sua vita, anch’essa complicata, ricca di prove e di sofferenze.

E difatti, il secondo volume intitolato I ragazzi hanno grandi sogni parla del suo percorso di integrazione nel nostro Paese, che non è stato per nulla facile, come si può immaginare: Alì è sicuramente arrivato a destinazione, ma la paura di essere espatriato in un luogo dove ormai non ha più niente e nessuno continuerà a fargli compagnia per anni.

Senza contare che non conosce la lingua, ha perso molti anni di scuola ed è costretto a vivere in un centro di accoglienza, dove riceve tutte le cure necessarie per il sostentamento, ma soffre terribilmente di solitudine, come tutti gli altri ragazzi nella sua stessa situazione.

Ciò che mi ha colpito è la sua incredibile tenacia che l’ha spinto a fare enormi sacrifici per raggiungere la posizione che ha oggi; una sorta di rivalsa nei confronti di quella famiglia che ormai ha perso, ma sente sempre vicina.

Per quanto la sua storia sia commovente come la parte precedente, questa volta lo stile di scrittura non mi ha fatto impazzire per tre ragioni:

  • Prima di tutto perché narra al tempo presente ed è una cosa che per gusto personale non apprezzo. Preferisco il buon vecchio passato remoto, anche se alcuni lo trovano pesante.
  • In alcuni frangenti non è molto chiara la collocazione temporale degli eventi, perché a quanto ho capito i capitoli procedono un po’ per argomenti, non tanto per ordine cronologico. Oltre a ciò il ritmo è continuamente spezzato da flashback che descrivono meglio il suo rapporto con il padre e gli insegnamenti tratti dai genitori.
  • Ammetto che ho un po’ dubitato dell’autenticità di qualche episodio della storia, che forse è stato modificato perché risultasse più toccante per il lettore.

Alla fine, rimane comunque un libro che vale la pena leggere, perché poche volte ci si chiede cosa devono affrontare gli immigrati che sostano per anni nei centri di accoglienza, costretti a vivere in un limbo di incertezza con la paura di tornare in un luogo senza speranze dal quale sono scappati.

Voto 3/5.

“Mi chiede se ho qualche parente, qualche amico di famiglia, insomma è chiaro che anche solo la metà di quello che le ho raccontato le risulta insopportabile. E che forse, come milioni di italiani, non ha la minima idea di quali storie si nascondano in noi che arriviamo da lontano. Non è colpa sua: semplicemente i due mondi è difficile che si incrocino.” I ragazzi hanno grandi sogni, A. Ehsani

La Mennulara – S. A. Hornby

Ci sono periodi come questo in cui purtroppo c’è poco spazio per la lettura, ma questa mattina mi sono voluta ritagliare una mezz’ora per parlavi di un libro che ho finito di recente.

Dunque, l’autrice Simonetta Agnello Hornby è conosciuta da anni, ma solo nell’ultimo biennio continuo a veder parlare di lei nei gruppi lei lettori, soprattutto in relazione agli ultimi romanzi: Punto Pieno e Piano Nobile.

Così, come tante altre volte, mi sono incuriosita e ho deciso di scoprire la sua penna artistica scegliendo, per puro caso lo ammetto, il romanzo d’esordio che l’ha resa famosa e ha inaugurato una prolifica carriera letteraria.

La Mennulara, che ad oggi si presenta anche con la consueta copertina dove una fanciulla di spalle è mezza coperta da drappi di dubbio gusto, è stato pubblicato per la prima volta nel 2002, per poi essere riveduto e arricchito nel 2019 attraverso una Graphic Novel di Massimo Fenati.

La storia è ambientata a Roccacolomba, un paesello inventato che si troverebbe in provincia di Palermo. Le vicende iniziano nel 23 settembre del 1963, quando la domestica di casa Alfallipe Maria Rosaria Inzerillo, detta Mennulara, muore prematuramente.

Non sarebbe poi una vicenda così straordinaria, se non fosse che nella famiglia altolocata dove aveva prestato servizio, era diventata una vera e propria amministratrice del patrimonio, facendolo fruttare a tal punto da riuscire a comprare una casa per sé stessa e pagare gli stipendi dei tre eredi ignoranti e incapaci.

Ora che è morta, però, sono iniziate speculazioni e pettegolezzi di ogni genere: come ha fatto a diventare così ricca? Avrà lasciato un’eredità ai membri della famiglia Alfallipe? Ha davvero rubato il loro denaro? Era coinvolta nelle attività della mafia locale?

Nel paese le voci iniziano a circolare, le persone non perdono neanche un dettaglio della vicenda e chi sa qualcosa inizia a fare il giro di conoscenze per aggiornare sugli ultimi pettegolezzi.

Man mano che si prosegue nella lettura si scopre un pezzo alla volta chi era questa donna, le sue origini, la sua vita e come è finita a lavorare per gli Alfallipe, ai quali ha dedicato praticamente tutta la sua esistenza, sacrificando la giovinezza.

Dunque, veniamo alle mie considerazioni personali.

Per prima cosa, senza troppi giri di parole, non sopporto lo stile di scrittura di questa autrice! Il racconto è suddiviso in numerosi capitoli, con un irritante riassunto iniziale che anticipa ciò che succede, togliendo anche ogni entusiasmo per eventuali colpi di scena.

Mi domando quale sia il senso di inserire quelle due righe di spiegazione come se fossimo alle scuole elementari: spezzano il ritmo e sono del tutto inutili. Ad un certo punto le ho ignorate deliberatamente.

Un altro aspetto che non ho apprezzato è la presenza di numerosi personaggi, molti dei quali sono inutili quanto i riassunti di prima: servono solo a creare confusione e ad alimentare l’idea che ci siano tante persone a spettegolare sulla vicenda.

Senza contare che è difficile ricordarseli tutti, anche perché hanno la stessa personalità: sono piatti, non hanno carattere e appaiono come una serie maschere che appiattiscono il racconto.

L’unica che spicca è la Mennulara (e menomale).

Per quanto riguarda la storia, sono costretta a fare delle anticipazioni per esprimere la mia opinione.

La sensazione che mi ha lasciato è una profonda tristezza nei confronti di questa donna che ha vissuto una vita infelice e nell’ombra, nonostante abbia lottato con le unghie e con i denti per mantenere salda la sua dignità.

Non solo subisce una violenza sessuale praticamente da bambina, ma per salvare il suo onore (come se fosse stata colpa sua), viene spedita a lavorare a casa degli Alfallipe. Qui diventa la concubina del giovane erede Orazio, che seguirà anche dopo che si sarà sposato.

La storia d’amore dei due è travagliata e può essere vissuta solo di nascosto: nessuno avrebbe mai accettato un matrimonio tra una serva orfana e un ragazzo nobile. Lei per lui ci sarà sempre, anche alla morte, aiutandolo in prima persona a porre fine alle sue sofferenze.

Il culmine della tristezza, se vogliamo, è che solo una volta passati a miglior vita hanno potuto esprimere il sentimento reciproco senza vergogna, attraverso l’evento artistico annuale “La Mennulara“.

Un altro aspetto che emerge da queste vicende è che purtroppo, molto più spesso di quanto si pensi, i meriti e i privilegi vengono dati per titoli che si hanno già alla nascita, non certo per capacità personali. Se da povero diventi ricco, si inizia a dubitare sulle modalità di successo.

Una visione cinica e rassegnata, arricchita anche da luoghi comuni, che oggi non vale più così tanto.

Voto 2/5.

Julia

PS: ma Aldo Busi che libro ha letto per definirlo “divertimento maestoso”?!

Le sorelle Donguri – B. Yoshimoto

Quando ci sono periodi un po’ difficili e carichi di preoccupazioni, ognuno di noi cerca un modo per distrarsi: chi fa sport fino allo sfinimento, chi esce con amici e chi come me inizia a leggere NO STOP per riempire la testa di storie che non ci appartengono.

Settimane fa mi è capitato di passare in libreria e se c’è una cosa alla quale non riesco proprio a resistere sono quelle favolose offerte del tipo “Prendi 2 e paghi 9,90“.

Il problema è che molte volte scorrendo le copertine non trovo gran che di interessante, soprattutto quando afferro qualche volume e leggo la trama; quindi, in tempo zero mi allontano un po’ delusa.

L’ultima volta, invece, sono stata travolta dalla voglia di shopping e ho deciso di comprare qualcosa, fra cui Le sorelle Donguri di Banana Yoshimoto.

Premetto che all’inizio non mi entusiasmava l’idea di approcciarmi ancora a questa autrice: avevo letto Kitchen mesi fa e, a dispetto delle recensioni entusiaste presenti nel web, non mi aveva fatto impazzire. Cliccando qui, potete trovare la recensione.

Insomma, ho voluto fare un altro tentativo e sono rimasta molto contenta. Certo, è evidente che Le sorelle Donguri è un’opera più matura rispetto alla precedente, dove ritorna comunque il tema della morte (mamma, che ansia!) con conseguente lutto, ma lo fa in maniera così delicata, da diventare estremamente poetico.

In questo romanzo le protagoniste sono Donko e Guriko, due sorelle diversissime che dopo una serie di lutti che iniziano con la morte dei genitori in un incidente, possono contare solo l’una sull’altra. Decidono di aprire una sorta di sito di ascolto, dove la gente invia mail per sfogarsi sulla qualunque e loro rispondono dando conforto.

Un giorno Guriko sogna Mugi, il suo primissimo amore che non vede da anni, e decide di andare a cercarlo, trovando il coraggio di uscire dalla sua clausura: Guriko, infatti, è una ragazza molto introversa e di rado si concede svaghi, al contrario della sorella.

La storia ha un ritmo molto lento, senza particolari colpi di scena e potrebbe risultare noioso. Il grosso della narrazione riguarda l’analisi introspettiva di Guriko, che ricorda il suo percorso travagliato, il senso di solitudine che l’ha portata ad ammalarsi e il desiderio di cambiare pur non avendone il coraggio.

La storia d’amore fra lei e Mugi, così surreale e delicata, è stata una delle più toccanti che abbia mai letto. Secondo me era poesia pura, così come tutte le similitudini e metafore utilizzate nell’intero romanzo, a metà fra la realtà e il sogno di Guriko.

Per i teneroni inside come me, che da fuori sembrano sempre dei T-rex nevrotici e arrabbiati, è il libro ideale che fa sognare e riflettere, lasciando comunque un po’ di amaro in bocca.

Attenzione: non è la classica storia d’amore! Basta, non dico altro…

Voto 5/5.

“Quando non si esce in casa per tanti giorni, nella nostra testa il mondo diventa a poco a poco più grande di quello reale. Senza che ce ne accorgiamo, le nostre fissazioni prendono il sopravvento. Allora si deve uscire per ristabilire le proporzioni – questo è quello che faccio sempre. Farsi da parte, recuperare le energie. O così o si finisce per soccombere. La minaccia non viene dall’esterno: è la nostra parte più intima che rischiamo di perdere di vista. E se questo accade, le persone intorno a noi percepiranno il nostro spaesamento e il loro atteggiamento nei nostri confronti cambierà.” Le sorelle Donguri, B. Yoshimoto

Kitchen – B. Yoshimoto

Una degli scrittori che ero curiosa di leggere era proprio la giapponese Banana Yoshimoto, che ormai è diventata celebre anche in Italia da svariati anni, ma solo di recente ho preso in mano un suo romanzo per addentrarmi nello stile.

Ed ecco Kitchen, che ho scoperto essere stata la sua prima pubblicazione, risalente ai primi anni Novanta. Per altro è un romanzo distribuito da Feltrinelli, nella sezione di giovani ragazzi (quando si dice “non ti sfugge niente, eh!”).

Insomma, la trama è composta da due racconti, uno dei quali occupa la quasi totalità delle pagine, narrando di Mikage, una ragazza che, dopo la morte della nonna rimane sola al mondo. L’unico posto che fa la sentire al sicuro è la cucina, non importa quale o come sia messa, ma è l’unico luogo capace di rassicurarla.

Nelle ultime quaranta pagine del libro abbiamo invece Plenilunio, una storia che la Yoshimoto ha inserito nella tesi e che ricalca una leggenda giapponese, senza discostarsi dal tema centrale dell’intero romanzo, ovvero il lutto.

Sì, perché, nonostante la copertina in stile cartoonesco, molto colorata e ricca di dettagli, la dicitura rassicurante “per ragazzi” e un titolo che ricorda molto i ricettari della zia Peppina, la trama sembra più una lunga poesia che cerca di affrontare dolcemente la perdita di chi amiamo, chiunque esso sia, dal genitore al partner.

Ed è forse proprio questa la ragione per la quale non sono riuscita a simpatizzare del tutto, o comunque non mi sono sentita particolarmente coinvolta. È come se per tutta la lettura mi sia ritrovata in un limbo, aspettando una svolta significativa da un momento all’altro, quel punto in cui la storia prende una piega interessante. Invece no. Mi è sembrato di vedere un cielo plumbeo, pieno di nuvole grigie, in attesa di una tempesta che non è mai arrivata.

Leggendo le recensioni di altri utenti, ho notato che tanti fanno riferimento al shojo manga cercando di descrivere lo stile della Yoshimoto, ovvero una categoria che si rivolge ad un pubblico prettamente femminile, esponendo solitamente (ma non in via esclusiva) delle tematiche fortemente sentimentali. Non essendo un’appassionata del genere, onestamente su questo punto non saprei cosa dire. Vero è che le descrizioni ambientali mi hanno ricordato molto gli anime strappalacrime che ho visto su Netflix, così come i dialoghi e i personaggi.

Detto ciò, torno a ribadire che non ho apprezzato l’esposizione della storia. Sembra più un romanzo non compiuto, una serie di appunti che mai vengono pienamente sviluppati, imprimendosi nella pagina come tetri ricordi. Ad un certo punto ho cominciato a spazientirmi per il ritmo monotono e non vedevo l’ora di finire. A parte la morte non accade davvero nient’altro di rilevante, per questo non comprendo nemmeno il titolo: la questione della cucina come luogo rassicurante non viene approfondita come mi sarei aspettata.

Eppure, c’erano altre questioni interessanti su cui poteva vertere l’attenzione, come Eriko e la sua transizione, oppure il carattere dello stesso Yuichi, che sembra più un fantasma dalla personalità evanescente. Per altro, la sua storia d’amore è una delle più brutte e nonsense che abbia mai letto.

Di contro, Plenilunio l’ho apprezzato di più, anche se non posso gridare al capolavoro.

Concludo dicendo che tanti si sono lamentati dei finali tronchi, che danno l’idea di una storia inconcludente, caratteristica tipica dello stile letterario giapponese. Francamente la cosa non mi disturba affatto: a parer mio, sono altri i problemi di questo romanzo.

Voto finale 2.5/5.

Julia

“Felicità è anche non accorgersi che in realtà si è soli.” Kitchen, B. Yoshimoto

Il mio anno di riposo e oblio – O. Moshfegh

A parer mio, esistono dei libri che passerebbero inosservati, se non venissero presentati al pubblico con uno sconto imperdibile. Questo è il caso di Il mio anno di riposo e oblio di Ottessa Moshfegh, trovato in mezzo alla pila dell’Universale Economica Feltrinelli, insieme ad altri titoli mai sentiti.

Quando dopo tre mesi di dieta sali sulla bilancia e scopri di aver perso mezzo chilo

Mi ricordo che il giorno in cui l’ho comprato avevo una certa fretta nello scegliere, quindi ho dato un’occhiata veloce alle trame, prendendo ciò che più mi intrigava. Guardando la copertina, con quella fanciulla dall’aria frustrata, ho subito pensato ad un romanzo ambientato nella borghesia dell’800, in pieno stile Austen. Invece, rigirandolo per leggere la quarta, mi sono resa conto che mi sbagliavo, anche se la trama era comunque interessante:

della protagonista si sa tutto tranne il nome. È giovane, magra, bella, viziata, ricca, laureata da poco alla Columbia e residente in un appartamento nell’Upper East Side a New York. Sembra non le manchi niente, in realtà ha dentro un vuoto incolmabile, che pare non sia legato alla perdita prematura dei suoi genitori o a come la tratta il ragazzo che ama, Trevor. Si convince che per riprendere in mano la sua vita deve dormire sotto farmaci per un anno intero e per farlo le servirà la collaborazione della dottoressa Tuttle, la psichiatra peggiore che si sia mai vista.

La narrazione della storia è in prima persona, per cui vediamo il mondo attraverso l’occhio super cinico della protagonista, che odia così tanto la vita, da strapparmi il sorriso più di una volta. Le situazioni che si creano sono al limite dell’assurdo e sembrano quasi comiche se si pensa che a volte dà voce a pensieri che potremmo aver avuto tutti, ma non vogliamo ammetterlo: l’amica si preoccupa che stiamo dimagrendo, ma sotto sotto pensiamo che le dia fastidio. Oppure si lamenta dei suoi problemi, ma non sempre siamo ben disposte ad ascoltare.

Insomma, ci sono delle giornate no in cui vediamo tutto nero e siamo un po’ come lei. Ci dà fastidio tutto e non ci interessa dei problemi del mondo! Vorremmo solo risolvere i nostri!

È anche vero, che ben presto questo modo di fare ha iniziato a stancare pure me. Penso che Ottessa abbia volutamente reso antipatica la protagonista, portandoci sempre più a fondo nel suo baratro di disperazione. La soluzione che adotta è il culmine della sua idiozia, oltre che una situazione del tutto surreale. Non penso che sia possibile per un essere umano sopravvivere a lungo in quelle condizioni. Questa addirittura va avanti per mesi e se ne esce bella fresca come una rosa, come una bambina appena nata.

Senza contare che spesso la stessa narrazione sembra bloccarsi in noiosi elenchi di azioni/farmaci o turpiloqui inutili e, quando sembra che stia per succedere qualcosa, in realtà si torna al punto di partenza.

ALLARME SPOILER!

A parer mio, per quanto inizialmente mi abbia fatto sorridere in alcuni punti, non lo considero affatto un capolavoro. “Casualmente” negli USA ha fatto un enorme successo e sottolineo “casualmente” perché ho il sospetto che sia dovuto all’inserimento della questione dell’attentato alle Torri Gemelle. Mi domando, se non l’avesse inserito, avrebbe destato da parte loro lo stesso interesse? Inoltre, non ho capito dove l’autrice volesse andare a parare. Mi spiego, alla fine la protagonista rivede le immagini della caduta delle Torri. Fra le persone che si lanciano, le pare di riconoscere la sua migliore amica Reva e la colpisce perché si getta verso l’ignoto da sveglia, il contrario di ciò che ha fatto lei. Ciò la porta a riguardarsi la scena numerose volte. Allora, prima di tutto la trovo una cosa di cattivo gusto. Già io sto male solo a vedere una foto al riguardo (vd. The Falling Man) e non conoscevo nessuno. Che piacere perverso potrà mai ricevere nel vedere una conoscente, alla quale voleva bene, che si suicida? Altra questione, quelle persone non si gettavano affatto nell’ignoto. È stato un gesto disperato, ma sapevano che non sarebbero sopravvissuti. E trovo semplicemente assurdo paragonare un’azione del genere, alla volontà idiota di dormire per un anno perché “odio tutti e la vita fa schifo, quindi nascondo la testa sotto la sabbia, così i problemi si risolvono da soli.”

Voto 2/5

Julia

“Non so indicare un evento specifico che mi aveva portato alla decisione di andare in letargo. All’inizio volevo solo un po’ di calmanti per cancellare pensieri e giudizi perché con la loro raffica continua facevo fatica a non odiare tutti e tutto. Pensavo che la mia vita sarebbe stata più tollerabile se il mio cervello fosse stato più lento nel condannare il mondo che mi circondava.” Il mio anno di riposo e oblio, O. Moshfegh

Tutto torna – G. Carcasi

Essendo domenica, oggi avrei dovuto dare degno riposo alla mia tastiera, oltre che ai miei occhi! A maggior ragione, avendo la mia gatta che continua a fissarmi con aria truce da sotto la sedia, mentre allunga una zampa per darmi una graffiata al braccio! Ma non potevo rischiare di far passare altri giorni senza recensire un libro appena finito: Tutto torna di Giulia Carcasi.

Cominciamo dalla trama: Diego è un professore universitario di Pisa che sta lavorando alla revisione di un vocabolario. Nella sua vita cataloga tutto, comprese le emozioni, un po’ come fa con le parole che chiude nei barattoli. Un giorno, durante uno dei suoi spostamenti tra Roma, dove abita, e Pisa, il treno si ferma in galleria per un guasto. Le luci si spengono e Diego sviene. Sarà la voce di Antonia a tirarlo fuori dallo stato di incoscienza. Fra loro nasce una storia d’amore che sembra perfetta, fino a quando non entra in scena la menzogna.

Un romanzo brevissimo, che si legge in un giorno se si è di luna buona (io ce ne ho messi due, tanto per dire). Le 120 pagine proseguono con un ritmo altalenante, un po’ a singhiozzi: frasi brevi, ripetizioni continue, descrizioni concise. Gli unici periodi lunghi sono quelli che contengono massime di vita, a volte non immediatamente comprensibili. Le vicende dei personaggi vengono catalogate in base al giorno in cui sono avvenute, in linea con la personalità di Diego, ma all’interno di un capitolo si possono saltare anni di vita nell’arco di due parole, lì per lì lasciando un po’ confusi.

Penso che questo stile di scrittura o si ama o si odia. Dal mio punto di vista, per quanto comprenda la logica di scelta, non l’ho apprezzato per niente. Procedere a singhiozzi non mi coinvolge abbastanza nella storia: preferisco una prosa più articolata, che mi fa addentrare dolcemente e costruisce un mondo di particolari. Così no, mi sembra una serie di appunti non finiti, una bozza di libro che potrebbe evolversi in una bellissima storia d’amore, ma rimane lì, a darsi solo una definizione come parole sul vocabolario. Senza contare che, con questo tipo di narrazione, i personaggi mi sono sembrati bidimensionali.

Le pagine scorrono perché semplicemente c’è poco da leggere, tutto qua. Quando l’ho finito non mi ha lasciato niente, solo l’esclamazione sul finale: due secondi di stupore e fine. Di solito, quando termino un romanzo ci penso per giorni, ma qui la mattina dopo già me lo stavo scordando.

E niente, il “prendi 2 a 9,90” non sempre va a nostro favore… =) Tuttavia, sarei curiosa di provare gli altri suoi successi: Io sono di legno e Ma le stelle quante sono.

Voto 2/5.

Julia

“Se qualcuno non sta al proprio posto, dopo vari aggiustamenti, quel posto verrà occupato da qualcun altro.” Tutto torna, G. Carcasi

Le cose che bruciano – M. Serra

Capitano anche a voi quei periodi in cui le letture che scegliete non vi piacciono per niente? Il mio è uno di quelli, purtroppo. Con gli ultimi libri scelti credo di aver fatto un buco nell’acqua e comincio a chiedermi se non sia giunto il momento di fare un passo indietro e fiondarmi per un po’ nei grandi classici. L’ultima delusione ieri sera: tentativo fallito di dar credito ad un romanzo di un autore emergente. Scritto benissimo, ma dalla trama ripetitiva e assurda. Colpa mia che ho comprato l’ebook senza leggermi bene la trama prima o un estratto gratuito. Ma in questo articolo vorrei parlare di un testo facente parte delle opere del famoso giornalista Michele Serra, ovvero Le Cose che Bruciano.

Il protagonista è Attilio Campi, ex politico che decide di ritirarsi a vita privata in campagna a Roccapane, dopo le aspre critiche ricevute a seguito della sua proposta di legge che prevedeva l’introduzione delle uniformi nelle scuole di ogni ordine e grado. Attilio cerca di seguire un percorso tutto suo per raggiungere l’umiltà che non ha mai avuto, lottando con il fantasma del passato del suo acerrimo rivale politico, tale Ettore Mirabolani, e lavorando come bracciante di Severino. Il culmine della sua espiazione, secondo lui, è un falò con tutti gli oggetti ereditati dalla madre e zia Vanda defunte, nonché le scartoffie burocratiche che risalgono ormai a diversi anni addietro.

Dunque, nulla da dire sulla scrittura, a parte qualche parolaccia di troppo che, come ho già detto, non trovo piacevole da leggere. Ma del resto, come stile scorre abbastanza, anche nei momenti in cui vengono descritti i ragionamenti contorti del protagonista. Il problema per me è stata la storia, come per il libro dell’esordiente che vi accennavo sopra: la diversità è che qui è proprio noiosa! Arrivata a metà volevo mollarlo, ma ormai mi ero imposta di finirlo e ho sperato in un colpo di scena, in un qualche stravolgimento della trama. Quando poi finalmente è arrivato, mi è parso messo lì così tanto per rendere il ritmo meno monotono. Voto 2.5/5.

ATTENZIONE: SPOILER NEL PARAGRAFO!! Mi sono stupita nel leggere tante recensioni super positive sul web, ma poi ho ipotizzato che a garantire il successo di un romanzo, tante volte è la fama che precede l’autore. Michele Serra è molto apprezzato come giornalista e lavora nel campo da molti anni, probabilmente questo gioca a suo favore quando in mezzo a diversi romanzi pubblicati, ce ne sono uno o due che non corrispondono alla media. Ma queste sono considerazioni personali. Se devo giudicare solo la storia, posso dire che non mi è piaciuta per niente. Attilio è il classico personaggio antipatico, spocchioso e arrogante. Di fatto rimane un uomo fallito dall’inizio alla fine, ma il suo percorso è volto per lo più a cercare di non ammetterlo a se stesso. Meglio riversare la propria frustrazione sul rivale politico che ha saputo raggiungere il successo, su un Testimone di Geova che ha conosciuto per mezz’ora e se n’è andato senza troppo insistere sulla sua conversione, sulla sorella Lucrezia che ha trovato un modo tutto suo di vivere appieno la vita, sui giovani nipoti che considera viziati e drogati senza averli mai visti. Nonostante il falò mi rimane l’impressione che Attilio non impari niente. Ore di lettura per scoprire che è figlio di un altro uomo, in una confessione buttata lì a casaccio da Lucrezia e che non dà nulla di fatto al resto della storia. Nel finale l’autore lascia intendere che Attilio ha fatto il primo passo verso l’umiltà, conservando il ricordo del predicatore defunto…Convinto lui…

Grazie per aver letto l’articolo 🙂

Julia Volta

“Il passato che ci imprigiona è solo in piccola misura il nostro. Si tratta del passato degli altri che si traveste, pur di sopravvivere, da nostra memoria.” Le Cose Che Bruciano, M. Serra

Magari domani resto – L. Marone

Avete presente quando trovate lo stand con i mega sconti sui libri, ma ci sono tanti titoli e non sapete quale scegliere? E nello stesso tempo avete fretta perché il marito o i figli all’improvviso si rendono conto di essere studi, perciò iniziano a mettere ansia? Ecco, in queste circostanze si afferrano un paio di libri al volo leggendo velocemente la trama e facendosi catturare dalla copertina. In un’occasione del genere ho preso Magari Domani Resto di Lorenzo Marone.

Luce di Notte è una giovane donna che vive a Napoli, precisamente nei Quartieri Spagnoli, un vulcano sempre in eruzione che sembra avercela con il modo intero, forse un po’ perché ha una famiglia disastrata e un po’ perché nonostante sia un avvocato laureato a pieni voti, il massimo che ottiene come lavoro è di smistare scartoffie. Un giorno le viene affidata la causa per l’affidamento di un minore che forse, si rivelerà l’occasione per sciogliere i nodi del suo passato e fare un po’ d’ordine nella propria vita.

Diciamo che ho scoperto l’autore attraverso questo romanzo e purtroppo ho toppato alla grande, dato che non è nemmeno il più riuscito. E menomale, dico io! Perché nonostante il web pulluli di elogi per la storia di Luce, io l’ho trovata così noiosa che ho fatto davvero fatica a finire di leggerla. Prima di tutto partiamo dalla scrittura, appesantita da parecchie frasi dialettali, presentate anche quando non servono, e riflessioni filosofiche sulla vita degne dei Baci perugina. Per non parlare della volgarità della protagonista, perché una tosta dice una parolaccia ogni tre e attacca la gente prima ancora di capire il significato di ciò che le viene detto. A tutto questo si aggiunge la fiera delle banalità con tutti gli stereotipi che vi vengono in mente su Napoli e una protagonista che in quanto amore ispira ben poco. Voto 2/5.

ATTENZIONE: SPOILER IN QUESTO PARAGRAFO!!! Insomma io a questa Luce non riesco proprio a farmela piacere, una donna che vuole fare la dura a tutti i costi, ma diventa solo cafona e alla fine si scopre che anche lei ha un cuore grande accussì. Diciamo che è piacevole l’evoluzione del personaggio che alla fine impara ad apprezzare ciò che la vita ha da darle, senza cercare continuamente un capro espiatorio su cui scaricare le proprie frustrazioni. Buona anche la descrizione della città in sé perché ti coinvolge in quei quartieri che profumano di fritto (esatto, per me è un profumo!) e di mare. Per il resto, come accennato prima, irritante la continua ricerca di trarre perle di saggezza da ogni dialogo, fra l’altro alcune illogiche e di una banalità sconcertante. Ognuno è saggio sulla vita altrui, ma son tutti falliti, mistero! I personaggi surreali non aiutano in questa epopea di dialoghi impossibili, a metà fra il terra- terra e l’università della vita: non c’è né uno che esce fuori dalla figura che rappresenta, come la madre bigotta, il fratello scapestrato, gli anziani sempre saggi e buoni, la bella ignorante, un bambino prodigio…Il finale conserva questa coerenza: happy ending inverosimile ed affrettato, con un boss mafioso che diventa bravo perché restituisce il figlio alla madre e una famiglia “speciale” che festeggia non si sa cosa alla “vissero tutti felici e contenti”.

Questa volta mi è andata male con Marone, ma sarei curiosa di leggere il suo romanzo di esordio La Tentazione di Essere Felici, apprezzato molto di più di questo.

Grazie per aver letto l’articolo 🙂

Julia Volta

“Che buffa la vita, ti impegni con tutta te stessa a sembrare diversa da tua madre, anno dopo anno, e poi, ad un certo punto, una mattina qualsiasi, ti guardi allo specchio e rivedi il suo volto, le sue stesse rughe e gli stessi occhi stanchi.” Magari Domani Resto, L.Marone

L’uomo che voleva uccidermi – Y. Shuichi

Come dicevo nella presentazione, se qualcuno ha avuto voglia di leggerla (:P), ultimamente mi sto avvicinando al genere thriller che ho cominciato ad apprezzare solo da qualche mese a questa parte. Questo sicuramente perché, ahimé, ho sottovalutato la categoria. Fra i primi testi che ho acquistato, c’è L’uomo che Voleva Uccidermi di Yoshida Shuichi, un noir pubblicato da Universale Economica Feltrinelli.

Come preannuncia il titolo, la storia parla dell’omicidio di una ragazza di nome Yoshino, il cui cadavere viene rinvenuto nei pressi dell’inquietante valico di Mitsuse. Dalle primissime indagini emerge che la sera prima, dopo aver salutato le amiche, Yoshino doveva incontrarsi con un uomo contattato su un sito per incontri nel parco di Fukuoka. Quando gli investigatori cercano di far chiarezze sulle vicende che hanno portato alla sua morte, risulta evidente quanto poco si conoscesse la verità dei fatti che si nascondeva dietro alla sfacciataggine della giovane.

Il racconto, per quanto appartenga al genere dell’investigazione, più che cercare di capire cosa è successo alla protagonista, vuole esaminare una per una la psicologia dei personaggi, in particolare quella di Yoshino e di Yuichi, ragazzo introverso e tormentato. Ogni singolo individuo vive un’alienazione tanto profonda, da renderlo isolato anche quando interagisce con i familiari o amici. Si vive di apparenze e superficialità, non tanto perché si bada all’esteriore, ma quanto perché non ci si sente capiti. Ognuno recita la sua parte: la ragazza intraprendente e sicura di sé, l’amica ingenua, la sorella materna, l’uomo gradasso e tutto d’un pezzo, il ragazzo insicuro…ma dentro queste figure stereotipate, l’autore inserisce una serie di motivazioni che li fanno diventare complessi. Per quanto mi sia piaciuto il tentativo di non rendere statica la successione di eventi che porta alla resa dei conti finale, con relativa conclusione dell’indagine, alla fine la storia scade in un romanzo psicologico più che per il genere in cui è classificato. Per me è un 3,5 su 5.

ATTENZIONE QUESTO PARAGRAFO CONTIENE SPOILER! PASSATE OLTRE SE NON AVETE LETTO IL LIBRO! Ciò che non ho apprezzato per niente è il finale scontatissimo. Fin dall’inizio l’autore ci induce a pensare che l’assassino sia Yuichi e fin lì ancora mi dicevo “Sicuramente è la solita tattica del farti credere che sia quello il criminale, in realtà sul finale la situazione si ribalterà!”. E così sicura fino alla fine, tanto che ad un certo punto è stato proprio questo presupposto a spingermi a finirlo. Quando poi ho capito che effettivamente l’assassino era proprio quello, mi è sembrato che la storia stessa cercasse di prendere tempo in attesa dell’inevitabile. In pratica è un romanzo che non vuole indagare il chi e come, ma semmai il perché facendo diventare una vittima lo stesso omicida, che altro non è che un ragazzo estremamente infelice. Capisco il desiderio di non banalizzare un atto così cruento, ma soffermarsi su questo a discapito dell’intera trama, anche no.

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Grazie per la lettura 🙂

“Anche per questo, forse, Sari si sentiva sempre un po’ nervosa quando era da sola con Yoshino. Con Mako era sempre lei la protagonista, mentre se c’era Yoshino si sentiva un po’ a disagio, come se stesse indossando delle imitazioni di marchi di lusso.” L’uomo che Voleva Uccidermi, Yoshida Shuichi